Ogni storia che si rispetti iniziava con “C’era una volta…”, lo ricordate? Tipica espressione utilizzata nelle fiabe che risale quasi all’origine della scrittura, se pensate che fu usata dagli antichi babilonesi! Da noi in Italia è diventata canonica più o meno nel 1300 e da allora non ci ha più lasciati.
Quella di Antonio, altro testimone del mio “Il male d’amore” in uscita a gennaio grazie alla Graphe.it, non è una fiaba ma della fiaba ha proprio il “c’era una volta”:
«Quante volte, stretto fra le sue braccia, ero stato tentato di dirgli “ti amo” ma sentivo che se lo avessi fatto, lui, il suo “anch’io” non l’avrebbe detto», racconta. C’era una volta una storia che ha lasciato in lui il segno ma che fa parte del passato, dal passato arriva per riversarsi tra le pagine del libro e diviene parte di tutti noi che la leggeremo.
Si chiama condivisione, e il piacere di questa azione che sempre aiuta a ricordare che gli altri siamo noi, è insieme alla “comprensione” pilastro del mio saggio, addirittura fondamenta.
Antonio ci insegna a non vergognarci delle nostre vulnerabilità, perché anche all’interno di esse è apprezzabile il coraggio di lasciarsi andare, di mettersi in gioco comunque vada senza poi rammaricarsene. E, soprattutto, dopo aver tenuto la testa tra le mani, a rialzarsi e guardare avanti.
Si chiama vivere, e il vivere è fatto di ricominciare, ancora e ancora… Perché, come diceva Oscar Wilde, “Vivere è la cosa più rara al mondo. La maggior parte della gente esiste, ecco tutto”.
E allora, C’era una volta Antonio, personaggio di un libro ma figura reale, capace ancora di sognare il lieto fine di ogni fiaba che si rispetti.
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