Susanna Trossero

scrittrice

La meraviglia di un momento

“D’estate le mani del vento muovono invisibili fili nell’aria, che uniscono le onde, i capelli, i pensieri”.
(Fabrizio Caramagna)

Che strano questo improvviso riconoscere antiche atmosfere che ogni anno si ripetono. L’odore della pioggia, le spiagge meno affollate, quel clima per i più fortunati ancora vacanziero, ma per i comuni mortali ora denso di ben altri significati.

Vorrei saper dipingere per riprodurre sulla tela ciò che vedo e che tanta suggestione mi regala, ma mi limito a scattare una foto che ben rappresenta atmosfere e stati d’animo. Per quanto riguarda quest’ultimo, personalmente legherei il tutto al concetto di meraviglia, quella meraviglia discreta, che si insinua sottile nella parte più vulnerabile di noi accarezzando nervi scoperti. Vi capita, davanti a una immagine?

Da isolana, sono sensibile alla meraviglia del mare, della sabbia sottile come farina, dei gigli selvatici che nascono spontanei tra i cespugli, del vento che moltiplica il canto della risacca.

Mi piace trattenermi sulla spiaggia mentre tutti vanno via, la pelle calda di sole, i capelli impregnati di salsedine, un senso di vuoto da piacevole spossatezza, la mente che galleggia, lo sguardo che si posa.

So di essere in compagnia di grandi poeti e scrittori, di innamorati o anime nostalgiche, di insoddisfatti o gioiosi, di delusi o sereni. Perché qui, davanti al mare, c’è posto per tutti.

Ed io, tutt’uno con la natura, con quella piccola porzione di costa, d’acqua che si fa blu e di sole calante, sono in pace.

Meraviglia.

E di ben altra meraviglia, vi parlerò domani.

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Le piccole gioie ritrovate

Capita, dopo un periodo difficile che distoglie da tante cose, di aver voglia di cambiamenti. Un insolito impegno quotidiano, un progetto a cui appassionarsi, delle nuove regole, spazi da ricavare per fare ciò che ci fa star bene…

Le altalene a cui siamo sottoposti costantemente, ci spingono a dimenticare i piccoli grandi piaceri che fanno parte della nostra essenza e che nel tempo cominciamo a trascurare: ci sono cose più importanti, diciamo. E… domani, domani penso a me.

Mentendo a noi stessi lasciamo che quel domani tardi ad arrivare, con il risultato che il presente, l’oggi che sfugge di mano, crei un esercito di insoddisfatti.

Che cosa vi piace particolarmente? Intendo cose banali, niente di eclatante, quelle piccole gioie a cui vi dedicavate molto di più prima di lasciarvi plagiare da pigrizia mentale, circostanze sfavorevoli, tendenza a trascurarvi perché c’è sempre qualcosa di più importante da fare. Di meglio no, solo di più urgente.

Quando ero molto giovane, adoravo andare al mare al mattino prestissimo, quando la natura ancora sbadiglia e l’acqua è una fredda lastra silenzioso. Da sola, rabbrividendo, rompevo lo specchio entrandoci dentro e ricordo il dolce suono che accompagnava i passi man mano che avanzavo, un delicato sciabordio che pareva abbracciare l’anima. Quel suono non l’ho mai dimenticato e mi faceva stare in pace con il mondo, lo porto dentro di me da sempre e mi piacerebbe riprodurlo ogni sera prima di dormire…

Siamo pieni di cerotti per il cuore, di fonti di benessere anche più velocemente raggiungibili. Le mie sono in un tramonto da fotografare, in un animale da accarezzare, in un libro da leggere, in una fogliolina di menta da strofinare perché sprigioni quel profumo che tanto amo. Le trovo nell’acquisto di nuovi fiori per la terrazza, nelle lunghe passeggiate o nel preparare qualcosa di buono a mia madre che osserva i passaggi di una ricetta come una bambina. Le trovo in un abbraccio appena sveglia, o nel profumo di lievito per dolci. In un panino da mangiare al buio, la sera tardi, in compagnia di chi amo, seduta su un muretto un po’ scomodo. Nell’odore delle vecchie bambole o della buccia d’arancia, nei pop corn al cinema, nell’osservare tra gli scaffali quanti libri ho accumulato negli anni, nelle lenzuola fresche d’estate e nel tepore delle coperte in inverno, nel pensiero che vaga libero durante un viaggio in treno e nella nebbia che tutto nasconde. In una bella notizia che riguarda qualcun altro, nello scrivere una lettera, o… nel raccontare a voi che mi leggete le mie piccole quotidiane fonti di benessere.

Perché, arrivata alla veneranda età di 61 anni, ho capito che aveva ragione chi ha detto che non è ciò che abbiamo a renderci felici, ma ciò che apprezziamo.

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Perdersi per poi ritrovarsi

Perdersi. Perdersi in qualcosa o in qualcuno, nel nulla o nel troppo.

Siamo destinati a perderci, non è vero? Anche chi muore di noia e in niente si butta a capofitto, si sta perdendo: nell’apatia. Quindi non possiamo evitarlo, a quanto pare.

Personalmente, mi perdo spesso nella lettura, dimenticando tutto il resto. Mi perdo nel pensiero che vaga a briglia sciolta durante la notte, quando il sonno tarda ad arrivare. Mi sono persa in progetti mai portati a termine, in situazioni stupide, in passioni meravigliose come la scrittura. Ogni libro scritto, ogni racconto, è stato un perdersi. Per poco o per tanto tempo,

Mi sono persa dentro un dolore, anche questo capita. Ogni giorno diventa uguale, l’isolamento rende tutti estranei mentre sei tu l’estranea perché persa in un altrove soltanto tuo.

Mi sono persa nell’allegria. Succede, soprattutto in gioventù. Perché si può essere allegri anche con la maturità, certo che sì, ma quell’allegria che ti ingoia totalmente necessita di spensieratezza, incoscienza, leggerezza. Tutte meraviglie che in gioventù abbondano, di solito.

Mi sono persa in un’idea. Idea che diventa ossessione e non lascia spazio a niente altro. O mi sono persa dentro un’emozione.

Mi sono persa dentro una mancanza, divenuta subito mutilazione.

Spesso mi perdo davanti al mare. Il mare che lenisce, avvolge, trasporta. Che incanta. Che spinge a naufragare o invita a non lasciare la riva.

Ci si perde sempre in qualcosa. In qualcosa o in qualcuno. E qualcosa si perde. Ma riflettendoci su, vorrei dire a che te leggi, che se ti senti annegare perché fai parte di coloro che vivono una perdita, ricorda che solo chi non ha avuto niente, nulla ha da perdere.

Pensa a questo: se soffri perché hai perduto qualcosa, sei tra i fortunati che possono vantare un ricordo importante, comunque sia andata a finire. E, credimi, è l’unica maniera per non perdere due volte.

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Messaggio in bottiglia

Messaggio in bottiglia

Sembra che il primo messaggio nella bottiglia, fu regalato al mare nel 310 a. C. dal filosofo greco Teofasto, ma da allora tanti altri usufruirono di ciò per lasciare traccia di sé, da Cristoforo Colombo agli ebrei deportati, per non parlare delle ricerche della Nasa o di coloro che utilizzavano tale sotterfugio per comunicare con le spie di varie epoche. La storia dei messaggi in bottiglia la trovate qui e qui invece troverete altre curiosità interessanti.

Ma ciò che io in realtà mi domando è se qualcuno di voi, voi che mi leggete, abbia mai arrotolato un foglio per introdurlo nella bottiglia da regalare al mare… Con quale intento? E a chi era indirizzato?

Che cosa vi ha spinto a farlo? Curiosità, disperazione, speranza, ricerca dell’insolito…?

Ho proposto alla mia meravigliosa classe di “narratori seriali”, con la quale parlo di scrittura narrativa da ottobre a maggio, in una scuola a due passi dal mare che bagna il Lido di Ostia, di diventare immortali proprio grazie alle poche righe vergate su una zattera, in balia dei flutti. Fantasia, certo, quella che ci fa immedesimare in una simile drammatica situazione. Ma anche verità, perché solo con quella si lascia al mondo traccia della nostra essenza.

Ecco, il nuovo anno è cominciato con questa mia strana richiesta, da loro accolta con slancio. Non pubblicherò qui i messaggi che ne sono scaturiti, troppo intimi e privati, ma li custodirò come fossi io bottiglia depositaria di segreti e speranze.

Vi regalo il mio, invitandovi a scrivere i vostri in un massimo di dieci righe, e postarli qui. Vi aiuto…

“Sei in mezzo al mare aggrappato ad una zattera che sta per soccombere con te all’impeto delle onde. Ma c’è ancora un poco di tempo. Hai una bottiglia, una penna e un pezzo di carta per lasciare un tuo saluto, un commiato, una brevissima immagine che parli di te prima che tutto finisca. Può essere una frase, una poesia, un pensiero vago o concreto, qualcosa che racconti agli altri chi sei, o chi sei stato, o colui che saresti tanto voluto essere. Un saluto, un rimpianto, un ringraziamento, una recriminazione, qualunque cosa. Con quel biglietto diventerai immortale, ciò che conta, è che rappresenti la tua essenza, e che lasci detto al mondo chi sei e chi eri.”

Che il mare sia con voi,

Susanna

Credevo avrei avuto paura. Che avrei supplicato, forse pregato anche se mai l’ho saputo fare. O magari inveito. Che mi sarei rammaricata.
Si sappia, invece, che ho sorriso perché ho avuto dalla vita ciò che ho sempre desiderato: non soldi, non fama, non agi né lussi ma incontri. Ho incontrato Calore, in una famiglia che è stata porto sicuro e non zattera. Ho incontrato Amicizia, quella vera, in tante persone meravigliose che sono rimaste sempre con me o con me hanno percorso un po’ di strada. Ho incontrato Amore, oramai adulta, dopo errori di valutazione giovanili; quell’Amore che completa e non mutila, che ti lega senza alcuna schiavitù. E ho incontrato persone, tante, che mi hanno arricchita. Me ne vado dimentica del brutto – che ho conosciuto e dal quale a volte mi sono lasciata sopraffare – in nome del bello ricevuto, capace di farmi sorridere grata in un momento come questo.
Il mio bicchiere resta ancora mezzo pieno, anche se ormai d’acqua salata.

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Ripetizioni: una cura per l’anima

Un piccolo molo

Ripetizioni.

Di gesti, parole, azioni, fatti. La sveglia, la doccia, la colazione, rifare il letto, niente grinze. Il rumore della chiave nella toppa, l’aria fresca del mattino sul viso. I colleghi. Le occhiaie di uno, il trucco impeccabile dell’altra (e quanto ci metterà a costruire quella sua controfigura?). Lo sferragliare dei tram sulla via.

Gli odori. I sapori. Perfino i pensieri.

Ripetizioni.

Se solo ci fossero sinonimi e contrari anche per le cose della vita – di gesti, parole, azioni, fatti – invece che solo per le parole. Oh, quante sorprese ci attenderebbero, quante cose da raccontare.

Ripetizioni.

Nei piccoli centri non sono poi così male. Apri la finestra al nuovo giorno senza pensare al traffico né a quanto tempo ti ruberà. Spesso ti muovi a piedi, e per la pausa pranzo puoi persino azzardare due passi in riva al mare…

I colleghi a volte capita che siano stati i tuoi compagni di scuola, e per strada nessun tram: solo Lia che stende al sole gli asciugamani delle signore con i bigodini in testa, Fabio che porta fuori un po’ di merce ad attirare i clienti, Patrizia che scarica il furgone dei fiori. Profumo di pane appena sfornato, di cornetti e caffè, ma non di smog no, quello no. I saluti, i buona giornata, sorrisi, come stai?

I vigili urbani là non sono poi così cattivi che non c’è molto da fare, e il pesce è fresco, che se non lo è l’uomo del banco neppure te lo vende.

L’odore, al mattino, resta quello della scuola, anche se a scuola non ci vai più da una vita.

Alla sera, là sotto il monumento ai caduti, qualcuno improvvisa passi di danza sotto l’occhio vigile dei maestri che mangiano pizze al taglio, stanchi ma ancora incapaci di tornare a casa interrompendo condivisioni in musica.

Saracinesche che si chiudono, la luna che non ha né alte montagne né palazzi a nasconderla. Il maestrale che si placa ma tanto domani tornerà a bistrattare.

Ripetizioni, certo. E mentre ci vivi – nel piccolo centro – sono noiose. Non alienanti come in città, solo noiose. Se resti, lo sono.
Me se sei qualcuno che se n’è andato, se sei uno invece che per un poco ritorna, sono tranquillità. Balsamo. Necessità. Qualcosa che scopri tassello mancante in ciò che altrove hai costruito. La città ha confini di mattoni, d’asfalto, di finestre una sull’altra ma, in quel luogo differente, in quegli altri luoghi, i confini sono terreni brulli di campagna, cespugli bassi. E mare. Tanto mare. Un mare che ti resta dentro e che cerchi ovunque. Risacca, calma piatta o tempesta, purché sia mare.

Una ripetizione che aneli, sogni, ami.

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