Susanna Trossero

scrittrice

Scrivere per lasciare un’impronta

In questo periodo sto organizzando nuovi progetti che mi assorbono in termini di pensiero più che attraverso la scrittura.

Le idee sono tante, qualche buona proposta è arrivata con la bella stagione, e una nuova trama si sta delineando dentro la mia testa. Appunti infiniti, sconclusionati, scollegati tra loro ma utilissimi, necessari prima di trasferire con il giusto ordine una vera storia sulla carta.

Scrivere è anche questo… Guardarsi attorno, immagazzinare, tentare di trovare un nuovo modo per raccontare qualcosa che altri mille hanno raccontato. Non esiste un tema mai affrontato, ne sono certa, ma esistono nuovi modi per farlo, lasciando un impronta personale in argomenti che sono di tutti.

Oggi vi regalo un altro video in cui parlo di scrittura, ma nel postarlo voglio ringraziare coloro che – seguendo i miei consigli – mi hanno mandato mail in cui esternano dubbi o riflessioni sull’argomento, o brevi racconti chiedendo un punto di vista. Sì, vi ringrazio sia per la fiducia accordatami, sia perché in ognuno di voi ho riscontrato il piacere di dedicarsi a qualcosa che completa, avvince, distoglie, appassiona. La vita necessita di piccoli spazi vitali, in cui stare con noi stessi senza vuoti soffocanti o solitudini temute. In questi spazi, l’arte chiama, e la scrittura ne è una manifestazione, nonché importante espressione della creatività umana.

Continuate a scrivermi (susy.trossero@gmail.com), a leggermi, a condividere con me idee e pensieri, vi aspetto con rinnovato affetto,

Susanna

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Non mi piacciono gli eroi

Siamo tutti, personaggi di una storia. Ora protagonisti, ora comprimari, di supporto o di passaggio, da ricordare o dimenticare. Attori principali del nostro vivere, comparse in quello d’altri, siamo parte del romanzo della vita, a volte così ricco di colpi di scena o così avventuroso da far le scarpe alla letteratura!

Una volta presentai un romanzo a una nota casa editrice, e mi fu detto che dovevo lavorarci ancora perché nella trama avvenivano troppe cose, troppe erano le situazioni affrontate. In realtà era tratto da una storia vera e dunque peripezie e vicissitudini rappresentavano accadimenti non romanzati, anche per questo decisi poi di non far nulla perché venisse pubblicato. Insomma, ciò che cerco di dire è che ogni storia, reale o romanzata, può scorrere placida in acque tranquille o navigare incontrando serie difficoltà per via di continui colpi di scena.

Nella narrativa, sono i personaggi (come nella vita) a provocare intrecci e creare rapporti che ci appassionano. I loro desideri (un personaggio deve averne), i tentativi di realizzarli o l’impossibilità di farlo, conferiscono ritmo provocando coinvolgimento.

Personalmente amo quelli imperfetti, che falliscono o si arrendono alle loro debolezze, che compiono azioni poco nobili o che finiscono per creare situazioni da tenere nascoste, per esempio. Gli eroi, in letteratura, sono quelli che riescono in un’impresa dove chiunque altro fallirebbe: antipatici no?

Non mi piacciono i personaggi statici (neppure le persone), quelli che non cambiano mai, mentre all’opposto preferisco quelli che compiono un percorso, che hanno un’evoluzione, in male o in bene.

Ho amato il personaggio di Bel-Ami di Maupassant perché mi ha irritato non poco; ho abbracciato Valeria de “Il quaderno proibito” (Alba de Céspedes), per la sua sincera confusione; ho riso con l’anziano scorbutico de “Un calcio in bocca fa miracoli” (Marco Presta) per le sue azioni da ragazzaccio… Potrei continuare all’infinito perché tanti sono i personaggi che sono entrati a far parte del mio quotidiano grazie ai libri, ma non vorrei dilungarmi e mi piacerebbe conoscere quelli che voi avete apprezzato di più.

Nel frattempo, eccovi un’altra pillola di scrittura: stavolta, il mio video parla di… Indovinate un po’? I personaggi.

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La voce di un romanzo

Vi è mai capitato di soffermarvi sul serio sui toni di voce di un romanzo? Sì, non dico assurdità, i libri ci parlano e usano toni di voce differenti a seconda di ciò che gli autori vogliono trasmettere a chi legge.

La voce narrante o i personaggi, si arrabbiano, gioiscono, sono preda di dubbi, ammiccano, urlano o sussurrano… Come? Attraverso la punteggiatura, naturalmente, che non si limita a regolare un testo bensì ne costruisce il senso (o lo stravolge quando viene usata in modo inappropriato).

Il modo migliore per scoprire se funziona, è la lettura a voce alta: noi, in maniera del tutto naturale e istintiva, quando parliamo inseriamo nel discorso pause brevi o lunghe, silenzi, attese, sospensioni, intonazioni, in base a ciò che vogliamo comunicare. Ebbene, tutto questo può tradursi altrettanto naturalmente nella punteggiatura di un testo, ovvero la punteggiatura è comunicazione.

A proposito di questo argomento, giorni fa ho letto un articolo su James Joyce che parlava del suo “Ulisse”, considerato uno dei più innovativi romanzi del XX° secolo. Monologo interiore, flusso di coscienza, e sul finire – credo negli ultimi 8 lunghi periodi – assenza di punteggiatura.

Ebbene, l’articolo svela che una delle ragioni – ma non certo la sola – che fece considerare quest’opera come moderna e innovativa, ovvero la particolarità della punteggiatura mancante, in realtà non fu una scelta stilistica dell’autore. Aveva subito ben undici interventi agli occhi poiché gradualmente stava perdendo la vista, e ciò rese la stesura di Ulisse sempre più difficoltosa. Scriveva a letto, in posizione prona, e cominciò a usare dei pastelli colorati per rendere più visibili le lettere. A complicare il tutto, la difficoltà nell’inserire la punteggiatura tra le righe e il renderla a lui stesso visibile, tanto che ad un certo punto si arrese e smise di usarla! Insomma, una causa di forza maggiore che ha contribuito a rendere i flussi di coscienza del suo protagonista ancora più incisivi e Joyce audace e coraggioso.

Vi lascio con un mio breve video sulla punteggiatura, esortandovi ad andare a scovare aneddoti o curiosità sugli scrittori che più amate: le sorprese sono sempre molto interessanti.

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Quando il male è fatto bene

Quando leggiamo qualcosa che ci disturba, ne siamo attratti. Ci dissociamo nella vita reale almeno quanto ce ne cibiamo nella narrativa o nella cinematografia, non è vero? E se un libro leva le farfalle dallo stomaco per strizzarlo con situazioni sgradevoli, lo suggeriamo anche agli amici, in quella forma di tam tam che ne prolunga la vita.

Chissà perché lo scrittore abile nell’elaborazione del negativo, cattura la nostra attenzione… Forse la spiegazione è quasi banale: c’è chi vorrebbe dire o fare le stesse cose dei suoi protagonisti ma teme il giudizio o la punizione e allora si immedesima con la fantasia, e c’è chi se ne dissocia a tal punto da starci male leggendole. In entrambi i casi, l’emozione vince. Non importa poi molto di quale emozione si parla – empatia o ribrezzo, invidia o disgusto – l’importante è suscitare qualcosa.

E allora imparate a metter via ciò che siete realmente e create protagonisti che agiscano contro la vostra morale, sospendendo il giudizio e sporcandovi le mani con quel fango che tanto cattura. Funzionerà.

Leggendo “Uto”, di Andrea De Carlo, ho provato dispiacere nel brano che descrive il concetto di famiglia: “Mi venivano in mente le alleanze di facciata e le strategie occulte e gli imbrogli e le simulazioni e i finti equivoci, le buone intenzioni e le cattive conseguenze, i sentimenti manifestati e gli impulsi repressi. Pensavo che ogni famiglia è una specie di associazione a delinquere, dove chiunque può legittimare i suoi peggiori difetti e dare un risalto senza proporzione alle sue qualità limitate”.

Meccanismi di amplificazione e smorzamento, li chiama. Fastidioso vero? Eppure… ecco, “eppure”.

Raccontate il male, siate il male, e soprattutto fate in modo che il male sia fatto bene: ecco la pillola di scrittura di oggi.

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