Susanna Trossero

scrittrice

Numero 41

FioriPoco più di una settimana fa, siamo arrivati a 41 dall’inizio dell’anno. C’è addirittura una media, quasi che non possa passare una settimana senza che accada, e temo che al numero 41 già vada ad aggiungersi qualcosa, nel momento in cui il mio post è on line.

Sono le nostre amiche, sorelle, vicine di casa, le nostre dipendenti o datrici di lavoro. Le nostre madri o mogli o figlie. Non sono nomi sconosciuti che fanno parte della cronaca, sono persone che in un qualunque modo ci vivono accanto, fosse soltanto perché ogni mattina prendono il nostro stesso autobus per andare al lavoro.

Il femminicidio ci riguarda tutti eppure pare non riguardare nessuno, a me non può succedere/ no, lui no: è notizia al telegiornale della sera, è fiaccola accesa quando oramai la tragedia si è consumata.

Eppure, tutti noi, uomini e donne indistintamente, ne facciamo parte e forse, alcune volte, potremmo avvertire l’imminente esplosione e contrastarla. Almeno alcune volte. Non può non esserci un percorso interiore o dei segnali lanciati all’esterno, in questi uomini. Non possono tutti essere muti e isolati dal mondo. Hanno una famiglia che conosce la situazione e l’incapacità di metabolizzare la fine di una storia? Che intuisce anche soltanto quella malevola propensione a non accettare un “no”? Hanno un amico che presta la spalla agli sfoghi? Sono davvero tutti soli al mondo e con nessuno hanno pianto e sbraitato o minacciato, prima? Che tutti imparino ad aprire gli occhi, a monitorare meglio le situazioni, a proteggere, a non sottovalutare, a non tentare di giustificare o – peggio ancora – a non voltarsi dall’altra parte.

Tanti anni fa, una studentessa delle superiori fu percossa e violentata sul cofano di un auto in pieno centro a Cagliari, all’ora di pranzo, all’uscita di scuola. Nessuno se ne accorse, ma accadde sotto le finestre di tante persone, molte aperte per via della primavera inoltrata. Ed è più recente l’immagine di una giovane donna a Roma che corre per strada chiedendo aiuto, sbracciandosi, e auto o moto proseguono senza fermarsi. Un momento dopo, il suo inseguitore, la strangola, le da fuoco e lei muore atrocemente. O ancora, e questo accade fin troppo spesso, ricordo la ragazza che lasciò il compagno perché divenuto violento. Tempo dopo andò a riprendersi i suoi vestiti dalla casa che avevano in comune, accompagnata dalla mamma e dal papà, i quali temevano reazioni violente. Il papà purtroppo restò fuori per non inasprire la situazione, e l’uomo uccise a coltellate la ragazza e sua madre che tentava di difenderla.

Inutile fare altri elenchi: si chiama “sottovalutare”.

Le storie finiscono ogni giorno, le reazioni non sono tutte violente, per fortuna. C’è un dolore da assorbire, è naturale. Una frattura. Ma vi sono persone che mandano segnali evidenti di fragilità emotiva che può sfociare in rabbia pericolosa, altre che già si mostravano violente con le proprie compagne, nel quotidiano. Davvero, almeno in questi casi, nulla che si sia avviato, si può fermare?

Vittime e carnefici, sono sempre così soli? Così ciechi (o ingenui) coloro che gli stanno accanto? E perché noi donne abbiamo la tendenza a credere che quelle notizie della sera non possano portare il nostro nome? “Lui no, non lo farebbe mai, impossibile”. Frasi dette anche in seguito a precedenti manifestazioni violente… “è stato solo un momento, poi si calma, bisogna saperlo prendere”.

Non è la legge, che li ferma: lo fa quando tutto si è già compiuto.

È doloroso, ogni settimana, aggiungere un nome a quella cifra di cui sopra. Ci siamo dentro tutti… Tutte. Avevo 19 anni quando un ragazzo più grande di me cominciò a starmi dietro insistentemente. Non lo fece mai con modi aggressivi, ma si rivelò così fastidioso che imparai presto ad esserlo anche io e smisi di tornare a casa da sola. Si stancò, e cominciò a guardarsi attorno. Io non lo seppi, se non quando vidi la sua foto sul giornale, ma aveva cominciato ad assumere lo stesso atteggiamento con un’altra ragazza. Lei, al mattino presto, si muoveva da sola in un sentiero di campagna, dove correva per tenersi in forma. La uccise là, a coltellate. Non avrei mai pensato fosse capace di simili gesti. Mai. Neppure lei… A volte, è impossibile prevedere. Addirittura impensabile. Ma a volte no.

Nel quartiere in cui vivo, una mattina ho visto le macchine della polizia scientifica, e due corpi riversi a terra. Lui, incapace di accettare la fine di un matrimonio, chiede un ultimo incontro, uccide prima lei con un’arma da fuoco e poi la rivolge contro se stesso. Erano là, per terra, davanti ai miei occhi, non li conoscevo, ma mi sono chiesta perché la ragazza fosse andata da sola in quel parcheggio… E mi sono chiesta che cosa hanno fatto gli amici o i familiari di lui, assistendo al crollo psicologico. Non sto attribuendo colpe, non sono nessuno per farlo. Nè penso a un regime del terrore in cui le donne non debbano più uscire da sole.

Uomini e donne non dovrebbero vivere nella paura e guardare sempre tutti (o se stessi) come possibili assassini. Non è vita.  E allora? E allora l’educazione alla non – violenza, comincia da molto lontano eppure ci è tanto vicina e nasce in famiglia, a scuola, sul lavoro, sulla strada.  Non può essere basata solo sul timore delle conseguenze, bensì sul rispetto della volontà e dell’identità dell’altro. La mia amica, aggredita alle 5 del mattino mentre si recava al lavoro, si sentì domandare dai carabinieri come fosse vestita, se indossasse qualcosa di provocante. I commenti non servono, vero?

Gli stessi uomini dovrebbero insegnare  ai propri figli, amici, colleghi, il rispetto per l’altro, facendo sentire la loro voce. Forse quel “41 vittime” potrebbe risultare almeno inferiore, se tutti ricordassimo di quanto in quel numero siamo coinvolti. Di poco, di molto, chi può dirlo… Ma vorrei tanto smettessimo di pensare che il ridurlo è un desiderio utopistico. Lo vorrei con tutta me stessa.

E l’assurdo è che lo vedrò crescere.

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Un angelo in città

Un angelo in città

Li ho visti, gli angeli delle città, camminare sotto il grande portico che conduce davanti all’imponenza della cupola di San Pietro. Li ho visti in una di queste sere umide e battute dal vento, raggiungere i letti di cartone con generi di conforto – acqua, panini, cornetti alla marmellata, latte – e chiamare ogni clochard con il suo nome restituendo dignità. “Mario, vuoi un panino? Hai cenato?”, “Giovanni, come stai oggi? Ti va un cornetto così lo conservi per domattina e ci fai colazione?”

E poi c’era Paolino, che però già dormiva. Ma loro non sono passati oltre, si sono fermati, chinati a controllare che stesse bene, che davvero dormisse e non si trattasse invece di un malore.

Gentili, sorridenti, una buona parola per tutti e pronti ad ascoltare chi aveva solo voglia di fare due chiacchiere, e non di cibo.

“Ci sono tante realtà, qui sui cartoni – mi ha detto uno di loro – dal divorziato che non ha più un posto dove andare al detenuto che ha scontato la sua pena ma che nessuno vuole più in casa. Gente che ha perso il lavoro, la famiglia, perché non nascono barboni, lo diventano quando restano soli. In una grande città è facile che accada, purtroppo, ed è importante comunicare con loro, interagire. Ci sono anche molti stranieri, e vengono qui a Roma perché il clima – rispetto a quello del paese da cui provengono – è più vivibile, qui per strada…”

E così arrivano in gruppo, con addosso qualcosa di rosso (magliette o giubbe tutte uguali con la scritta “City Angels”), un basco sulla testa, simbolo delle forze Onu portatrici di pace, tra le mani delle grandi buste piene di cibo e acqua, forse anche qualche medicinale. A qualcuno domandano se ha freddo, se gli serve una coperta in più, con altri scherzano, ma di tutti conoscono il nome, e per tutti hanno sorrisi e parole. Poi se ne vanno, raggiungendo il portico di fronte e tanti altri ancora, in questa Roma raggiunta all’improvviso dalle notti invernali.

Sono tanti, operano in tante città, e si occupano di persone o animali in difficoltà insegnando la solidarietà che va ben oltre le parole o le buone intenzioni, e raccontandoci nel loro sito – www.cityangels.it – che tutti possiamo far parte di questo incredibile gruppo o fondarne uno nella nostra città.

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Un lunedì senza ombrello

Susanna Trossero, Un lunedì senza ombrello“Oltre i vetri del mio appartamento, adesso Roma è un tramonto inaccettabile, un bacio rubato per la via, un gabbiano che plana e una cascata d’edera infreddolita. È un cane randagio che strattona il sacchetto della spazzatura abbandonato e mal sigillato, è un clacson che importuna, un futuro giunto troppo in fretta tra i ruderi del passato.

Quando inizia, il futuro? Con quali segnali ti avverte del suo arrivo?

C’è un fiocco rosa, nel portone di fronte all’ufficio. Un grande, pomposo fiocco rosa fuori moda, fatto di pizzi e merletti, così come si confà ad una femminuccia. Perché annunciare al mondo una notizia privata? Perché deve essere condivisa tra vicini e sconosciuti, bottegai e postini? Perché dovrebbe rappresentare un lieto evento anche per me che passo là davanti ogni mattina, contrariata dal traffico o dalla sveglia che suona sempre troppo presto?
Questa domenica si sta rivelando interminabile.

Non ti voglio. Ecco, l’ho detto, e stavolta ancor più chiaramente. Mi hai sentito? Non ti voglio. Non voglio una caricatura di Federico in giro per casa. Non voglio preoccuparmi delle tue necessità fisiologiche, non voglio essere svegliata dai tuoi pianti capricciosi, non voglio darti il mio seno o la mia vita, il mio tempo o i miei pensieri. Se tu fossi un maschio, ne morirei. Se tu fossi una femmina vedrei in te la mia persona mescolata a tuo padre, come un patchwork grottesco e umiliante, costantemente sotto i miei occhi. Sei il suo orgasmo dentro di me. Questo è un per sempre che non posso tollerare, che non sono in grado di sopportare.”

(Dal mio nuovo ebook Un lunedì senza ombrello, Graphe.it edizioni – qui una mia intervista in merito)

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Non è mai troppo tardi

barriere architettonicheDal sito www.treccani.it: “Barrière architettòniche: Impedimenti di natura costruttiva che risultano di ostacolo alla vita di relazione di chiunque, ma soprattutto di coloro che hanno una capacità motoria ridotta o impedita in forma permanente o temporanea”.

E fino a qui ci siamo, è un significato che tutti conosciamo, anche perché si è fatto molto in questi anni per abolirle, non possiamo negarlo, sebbene di lavoro da fare ve ne sia ancora davvero tanto: vi è mai capitato di fare un bel giretto alla ricerca di un centro di fisioterapia per qualcuno momentaneamente in sedia a rotelle per delle brutte fratture? Ve lo consiglio, potrebbe essere davvero istruttivo.

Siamo a Roma, una signora  è in cerca di un centro di questo tipo possibilmente non lontano dall’abitazione: visti i problemi causati a suo figlio da un incidente stradale, è consigliabile evitare lunghi spostamenti in auto.

Primo centro, piuttosto conosciuto e attrezzato per risolvere parecchi problemi.

“Signora, qui c’è scritto che deve cominciare ad usare le stampelle con l’aiuto di un fisioterapista, compiendo pochi passi alla volta, ma noi non abbiamo lo spazio per farli fare, questi passi, qui è impossibile!” Lei si guarda attorno e vede solo stanzini nei quali può stare a malapena un lettino. Qui, la fisioterapia è concepita solo per chi sta disteso…

Secondo centro. La signora si trova davanti a una bella e vistosa insegna ma anche a numerosi gradini e nessuna rampa. L’ingresso del centro è composto da una sorta di saletta d’aspetto in cui tre persone in piedi non ci stanno. Poi un piccolo corridoio in cui passa solo un ragazzino (magro), per quanto è stretto. Vi si cammina posti di traverso, come i granchi. La signora fa notare i gradini, l’assenza di rampe e il passaggio interno impraticabile non solo in sedia a rotelle o stampelle, ma anche se si è adulti non sottopeso. La risposta è “Non si preoccupi, in qualche modo ci si arrangia, vedrà…”

Terzo centro, ampio e provvisto di palestra, ma in cima ad una scalinata di sei gradini e senza alcuna rampa.

In questi centri di “fisioterapia e rieducazione motoria” si accolgono persone con disagi fisici non indifferenti, e credo sia lecito domandarsi come sperino di farlo o come diavolo facciano a garantire un servizio così delicato (a pagamento in due sui tre citati) se neppure si sono organizzati per accogliere il paziente! Se la risposta migliore è “ci arrangiamo”, se addirittura i reparti di ortopedia degli ospedali sono sprovvisti di sedie a rotelle, perché stupirci di ascensori non a norma, di porte troppo strette, di impedimenti quotidiani di ogni genere e gravità?

Il vero handicap va ricercato altrove, e sta in chi cammina bene sulle proprie gambe, in chi non necessita di stampelle o d’aiuto: sta in uno stato malato, in chi concede permessi per aprire un centro per disabili in cui se ci sono gradini “ci si arrangia”, ma anche in chi – come me – non si accorge della gravità del problema fino a che non lo tocca con mano vergognandosi profondamente della propria superficiale cecità…

Non è mai troppo tardi.

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Felice primavera

mio blog primavera

Rieccomi qui con voi, in questo luminoso sabato di primavera appena cominciata. Lo so, lo so, è piuttosto indecisa, ma datele il tempo di ambientarsi!

Ieri c’è sta la presentazione di Adele al Settegarba, un delizioso e ospitale wine bar del quartiere Garbatella a Roma, e ancora una volta ho rivisto volti conosciuti e ne ho incontrato di nuovi, ma ciò che non smette mai di stupirmi è il calore che ritrovo in questi incontri. Scrivere non è solo un modo per isolarsi dal resto del mondo, ma è anche un ottimo strumento per andar fuori a conoscerlo, il mondo! Ho rivisto con gioia una vecchia amica e concittadina (sono tanti i sardi che vivono nella capitale, sapete?), una ragazza che era presente all’incontro di Nettuno, un’altra che ci sta seguendo a tutti gli incontri del Lazio, poi diverse persone che già avevano letto il libro ma volevano discuterne con gli autori, il figlio di una mia allieva dei laboratori di scrittura, appassionato di psicologia… Perché vi dico questo? Perché là fuori è pieno di bellissime persone e non è fondamentale scrivere un libro per incontrarle, basta aprirsi al mondo, guardarsi attorno appena un po’ lasciando da parte quel negativo che ci appare.

Felice primavera a tutti, vi lascio con un qualcosa che la cara amica Valeria mi ha mostrato dicendo: “Tutto questo mi fa pensare alla tua Adele.”

Ci sono persone che non finiscono mai di amarsi.
Semplicemente si stringono,
aprono le vele delle loro barche nelle tempeste
e insieme solcano i mari delle loro vite.
Puoi vederle perdere la rotta, ma,
in qualsiasi bufera, reggono insieme il timone.
Le puoi vedere al tramonto, sui vecchi moli in disuso.
Mano nella mano, la loro storia è dentro i loro occhi
stanchi ma felici.
Spesso puoi trovarne qualcuna seduta su una panchina.
E, nella sua solitudine,stringe la felicità.
Hanno vissuto non come dovevano, ma, come volevano.
Non per amore, ma, con amore.
E la gioia non è arrivata mai dall’aver superato
la tempesta.
Loro hanno stretto.
Hanno semplicemente stretto insieme il loro timone.

(Alessia Auriemma)

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