Susanna Trossero

scrittrice

La zattera dei libri

Quello che ho battezzato come “Il luogo dell’abbandono”, rivela spesso delle meravigliose sorprese; forse dovrei riconsiderarlo come zattera in grado di dare una possibilità a chi altrimenti non ne avrebbe avute più.

Mi riferisco a una vecchia panchina di legno oramai quasi marcio dove più o meno ogni giorno degli sconosciuti lasciano dei libri. Sì, proprio così: libri.

Si tratta di un modo inconsueto di disfarsene, ma almeno concede loro d’essere adottati, di trovare una nuova casa e qualcuno che li ami.

A volte si tratta di scatole piene, altre di poche copie poggiate là, altre ancora di buste della spesa che racchiudono ogni genere di titoli. Un giorno ci trovi cataste di enciclopedie, un altro ecco spuntare una rara edizione del ’49 o una storia di Geronimo Stilton! Varietà.

Ci passo davanti oramai ogni giorno davanti alla vecchia panchina, alla ricerca di tesori che mi sorprenderanno, ma ne lascio anche di miei per contraccambiare. Lo faccio perché sono certa di non essere la sola a dirigermi là in cerca di sorprese.

Il luogo dell’abbandono è quello in cui i libri che qualcuno non vuole più trovano una nuova famiglia, e chiedermi quale sia la loro storia – al di là di quella contenuta tra le pagine – mi è naturale. Tutti abbiamo un passato.

Alcuni, sebbene si tratti di vecchie pubblicazioni, non sono mai neppure stati aperti e mi viene in mente che possano rappresentare regali non graditi. Anche le storie celate dietro un genere letterario, hanno un loro fascino sebbene frutto di supposizioni: ho incontrato una marea di titoli sulla gravidanza, altrettanti sul tradimento, i manuali di giardinaggio pieni di orecchie e appunti scritti a matita, ben 6 copie della Bibbia ma ognuna in una lingua diversa… E le cartoline che fanno capolino da libri degli anni ’50, o le dediche vergate con una tale accuratezza…

Questa volta ho trovato una edizione degli anni ’60 de “L’Angelo Azzurro” (H. Mann) la cui dedica è “A te che sai sempre cogliere il bello di ogni romanzo”.

Mi piace pensare che fosse per me.

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Soffrire per amore

Un certo sorriso

Giorni fa, per strada, ho incontrato un libro abbandonato al suo destino: Un certo sorriso di Françoise Sagan, edizione I Garzanti del 1966.

L’autrice mi è sempre piaciuta, me la fece conoscere una cara amica prestandomi Bonjour tristesse e Le piace Brahms?, nel tempo dei banchi di scuola, e anche stavolta ho letto il romanzo tutto d’un fiato!

Sulla copertina c’è scritto che si tratta di un sommesso e patetico racconto d’amore, e mi sono domandata quanti di noi ne abbiano provato uno…

Sommesso: il vocabolario dice “che mostra debolezza, umiltà, sottomissione”, ma è su “patetico”, che mi sono soffermata.

“La notte, la testa tra le braccia, schiacciavo il corpo contro il letto, come se il mio amore per Luc fosse stato una bestia calda e mortale che avrei potuto così, con ribellione, schiacciare tra la pelle e il lenzuolo. E poi la lotta incominciava. Il mio ricordo, l’immaginazione, divenivano due avversari feroci. Ciò che era stato, ciò che sarebbe potuto essere. E, senza respiro, quella ribellione del corpo che aveva sonno, dell’intelligenza che si disgustava”, racconta la protagonista del romanzo di Sagan.

Si dice di chi è patetico che sia piagnucoloso, imbarazzante, che mostra sentimentalismi e disperazione eccessivi, e così via.

Ma adesso, guardiamoci tutti allo specchio e neghiamo – se ne abbiamo il coraggio – di quella volta che proprio lo specchio rimandava una nostra immagine dimessa, sfatta, dagli occhi febbricitanti per il grande sconforto. Non è patetico amare, ma ci si sente patetici quando è qualcun altro a smettere di amarci. Un tradimento senza eguali.

Basta regaire, dicono le persone di buon senso”, ma sospirare e affliggersi è più facile, direi più naturale, perchè negarlo. Ve lo ricordate, quando vi è accaduto? Riuscite a rivedervi senza alcun imbarazzo?

Dovreste, perchè soffire per amore è cosa di tutti, anche dei più cinici che mai lo racconteranno ad anima viva ma che lo hanno fatto eccome!

Un medico, uno psicologo, spiegherebbero che il fatto di soffrire per amore va a risvegliare le stesse aree del cervello che si mettono in moto quando si prova un dolore fisico. Si può realmente provare un dolore localizzato simile a quello del cuore che si spezza. Insomma, il sistema nervoso centrale elabora nello stesso modo dolore fisico e psicologico. Dunque inutile vergognarsene, prima o poi passa, no?

Nel frattempo, possiamo tuffarci in dolori da romanzo, dove scrittori e scrittrici ci fanno sentire a casa, anche se meravigliosamente patetici.

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Lucciole e lanterne

Lucciole e lanterne

Il tuo vetriolo, versato copiosamente in quattro righe saccenti, era finito in tutti questi anni accanto alle chiavi di una casa non più mia, all’accendino scarico, a un rossetto scaduto e alla lista della spesa, contenuto totale di una borsetta passata di moda dimenticata dentro un armadio.

Ripenso alla nostra amicizia, alle nostre risate e complicità, alle uscite a quattro dopo i rispettivi matrimoni, alle gite fuori porta, alle cene, ai compleanni… Complici indivisibili, una vita vissuta l’una all’interno dell’altra, come il liquido in un bicchiere.

Poi, tutto è cambiato. L’aria si era fatta irrespirabile, pregna di occhi sfuggenti, di assenze improvvise, scuse inventate lì per lì. Ti sottraevi a me e rifiutavi di ammetterlo, insultando la mia intelligenza. E, dopo poco, l’inevitabile scontro.

Altri tempi, tempi in cui accusavo te di doppiezza, lui di tradimento, oramai conscia che fossero doppiezza e tradimento la nuova alleanza. Tu, e lui. Tempi in cui piangevo quando gli sentivo addosso il profumo di casa tua, così inconfondibile, a me familiare, mentre rincasava dicendo d’essere stato in ufficio.

Oggi sono qui, sola, con la borsa dalla cui bocca spalancata viene fuori qualcosa che mi restituisce l’esatta dimensione della mia ingenuità; riconosco il foglio ripiegato così come si riconoscerebbe per sempre il coltello che ci ha quasi dissanguati.

Come dimenticare? Me lo lasciasti allora, sul vetro della macchina, quando non volevo più parlarti dopo aver cacciato di casa il mio uomo. Un foglio ripiegato, solo questo, dove mi scrivesti:

Quando punti un dito alla luna,
per indicare la luna,
invece della luna
gli stupidi guardano il dito.

Una citazione, nient’altro. E io continuai a non capire, a sentirmi derisa. Mi si stava dando della sciocca: perché? Perché infierire? Che cosa avrei dovuto vedere, oltre al mio naso? Quella citazione, riportata sulla carta dalla tua mano, mi tenne compagnia a lungo nel tempo della rabbia.

Poi, più tardi, furono tempi della verità e delle scuse che ti dovevo.

Tempi in cui il tuo uomo e il mio, alleanza che mai avevo previsto, andarono altrove a sudare insieme sotto le stesse lenzuola.

(un mio racconto breve)

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Che fatica genera, il dormire…

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Che fatica sognare di lasciare che un uomo qualunque poggi la testa sul tuo cuscino.

L’estraneo sulla soglia di casa è senza più sorrisi, e annega nel suo quotidiano melmoso: farlo entrare è esserne contagiati, plagiati e – nel sogno – il modo educato e il tono gentile trasforma in fatto naturale anche il lasciarlo stendere sul tuo letto.

Riposava, lo sconosciuto. Era stanco.

Poi però ho pensato ai suoi capelli poggiati là dove tu posi i tuoi e ho provato disgusto, un enorme senso di colpa. Lui non aveva suscitato in me alcuna emozione, eppure quei capelli sulla federa, sul tuo profumo, si sono in me trasformati in male, e la stanza si è affollata di sguardi maligni di estranei che ti avrebbero raccontato di un mio tradimento.

Sporca senza aver commesso alcuna mancanza, realizzavo con angoscia crescente che mai avrei potuto discolparmi, che non sarei stata creduta, e l’ansia di un sogno trasformatosi in incubo, finalmente mi ha svegliata. Tu eri accanto a me, il tuo corpo caldo nel sonno, il respiro pesante. Avrei voluto scusarmi e carezzare il tuo viso e il tuo cuscino, ma ti avrei disturbato.

Ti ho amato di più, in quella strana sensazione che l’incubo – una volta dissolto – lascia addosso.

Che stanchezza genera, il dormire.

Il nuovo giorno si affaccia da piccole fessure, con la realtà che solidale lo affianca danzando nel pulviscolo. Il sogno è oramai dimenticato.

Come va veloce, la clessidra… Tutta quella sabbiolina che scivola via portando con sé incontri, parole, vita vissuta e non vissuta, emozioni, sorrisi e lacrime, realtà o fantasia da scrivere.

Nel tempo mi evolvo, imparo, assimilo e mai mi pento, mentre la sabbia va e viene e il fato, distratto ma determinato, organizza le giornate.

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