Susanna Trossero

scrittrice

Il primo giorno e l’ultimo

C’è un primo giorno, quello dell’incontro, della storia che nasce, della porta che si chiude alle sue spalle e di quella che si spalanca regalandogli un futuro insperato.

E c’è l’ultimo, quello dell’addio mentre lo accarezziamo facendogli sentire che non è solo, della malattia che se lo prende così come accade alle persone.

Nel mezzo, tra quel primo giorno emozionante e l’ultimo fatto di lacrime, una nuova realtà aveva preso piede: mescolando impegno e amore, aveva costruito qualcosa di solido fatto di piccoli dettagli se presi singolarmente, ma che nell’insieme hanno dato vita al nostro per sempre. Il rumore delle tue unghie sul pavimento, la tua adorazione per i centri commerciali, quel titubante vagare per casa con la copertina sulle spalle come un’anziana signora, l’imbarazzo nell’indossare l’impermeabile quando pioveva, il respiro regolare del sonno, gli sbadigli rumorosi, le improvvise gioie, il peso del tuo testone addosso, la tua paura del calzascarpe, quel brontolare se stavo troppo al pc, la curiosità buffissima per i cartoni animati…

Nel mezzo. Tra il primo giorno e l’ultimo.

Là c’erano tante di quelle piccole magie ed emozioni che ora la casa ci appare come un pozzo nero, senza fondo né luce. Tu sei stato il nostro Natale, persino un libro lo racconta rendendoti immortale fino a quando ancora qualcuno lo leggerà.

La casa è ancora piena di te e del tuo vivere anche in tua assenza, morire non era contemplato nel nostro quotidiano insieme. Avremmo voluto vederti invecchiare ma la sorte non ci ha concesso questo grande dono, Amico mio.

E chissà se hai davvero capito, fino in fondo e senza alcun dubbio – dopo un passato di abbandono e tristezza – quanto ti abbiamo amato. Noi, il tuo amore, ce lo porteremo sempre nel cuore.

Grazie Capoccione.

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Comparse e protagonisti

In un frangente in cui domenica potrebbe essere martedì e martedì domenica perché per molti di noi i giorni si sono scollegati dalla settimana, ho pensato a chi ho perduto per strada, lungo quel percorso che di frequente si può definire cambiamento e a volte si chiama crescita. Percorso che si compie ad ogni età finché c’è vita.

Riflettevo sul fatto che non necessariamente una frequentazione si interrompe per disaccordi o in seguito a scontri. Le amicizie a volte sono fasi e a fasi della vita sono spesso strettamente collegate. I compagni di scuola, l’amica dell’università, i colleghi di un lavoro di tanti anni prima. E coinquiline di passaggio che in un appartamento non condividevano solo un tetto e le spese ma anche sogni e progetti, o ancora le amiche della palestra o le persone conosciute in vacanza…

Insomma, tanti sono i volti che per un lungo o breve periodo affiancano presenze invece consolidate che – all’opposto – restano e le guardano apparire, sfilare e poi dissolversi.

Ecco, in questo frangente di giornate tutte uguali, la domenica è stata di nuovo domenica grazie alle foto della memoria, che mi hanno restituito occhi e sorrisi e parole di chi adesso ha occhi sorrisi e parole per qualcuno che non sono più io. E mi sono domandata se stanno bene, al sicuro, se sono persone che hanno paura per se se stesse o per chi amano. Chissà se a volte pensano a me come io a loro e mi ritrovano in un cd o in un ciondolo, in una ricetta o in un profumo.

In me, stanno tutte raggruppate in un piccolo borgo dalle porte mai sprangate, e se busso posso ancora rivederle senza che loro vedano me. Perché sono una donna che dimentica senza dimenticare, e penso che in noi resta sempre qualcosa degli altri, in bene e in male. In entrambi i casi, è esperienza di vita che insegna e forgia.

Riposte foto immaginarie e ricordi, ho lasciato che la domenica mi scivolasse via tra le dita, e il sole (lasciando spazio al lunedì di una lunga quarantena) è tramontato alle spalle del borgo e nel mio presente. Presente in cui mi sento fortunata, poiché chi lo abita è al sicuro e sono felice che tra questi ci siano ancora oggi nomi del passato, mai divenuti quelli di comparse.

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Il pane viaggiatore

Fiera del libro di Iglesias 2016

In questo inverno confuso, che ci ha regalato anticipi di primavera e improvvisi cali di temperatura, il nostro libro sul pane carasau ha davvero viaggiato tanto e tanto ha da raccontare. Antonella Serrenti e io siamo rimaste senza parole di fronte al costante interesse dei lettori, nei confronti del pane come alimento primario, simbolico, che diviene addirittura folklore perché ospite d’onore delle ricorrenze, delle giornate da custodire nella memoria, che accompagna momenti di gioia o di espiazione, pane così ben raccontato dai testimoni di questo libro, uomini e donne vissuti in un tempo difficile ma per assurdo più semplice, in cui vigeva una pace costruita con fatica, vissuta e respirata in un quotidiano antico che mai sapremo riprodurre.

L’anziano pastore che ci narra del pane carasau vissuto nei sogni illuminati dai bengala, in un’amistade (amicizia) nata sulla soglia di casa e interrotta bruscamente dal proiettile di una guerra, il pane puro nel sudiciume di una trincea che diviene per un istante cucina odorosa per due ragazzi cresciuti insieme, e insieme diventati uomini forse troppo presto.

Le donne dai capelli imbiancati che ricordano di quando il latte, durante la panificazione non aveva lo stesso sapore dei giorni “normali”; la nostra cucina diventava odorosa di buono e questo profumo di genuino e di pane appena sfornato impregnava anche il contenuto della mia tazza, trasformandola in qualcosa che mi resterà dentro finché vivrò.

Siamo davvero felici di aver portato in tante case questo pezzo di Sardegna che non è spiagge bianche o acque cristalline, ma anche odori caldi di camino acceso, di ginepro, di rosmarino, di origano posto ad essiccare in un fascio vicino alla porta… E un leggero fumo di legno secco, crepitante, ad avvolgere le pagine.

Il nostro è un libro che entrando di casa in casa porta sul tavolo una vera montagna di farina bianca e dobbiamo ringraziare tutti coloro che gli stanno aprendo la porta. Siete davvero tantissimi, in ogni regione d’Italia! E tanti sono stati i lettori che sono venuti a trovarci alla fiera del libro di Iglesias, un’esperienza entusiasmante che di certo ripeteremo l’anno prossimo.

Il pane carasau. Storie e ricette di un’antica tradizione isolana è un narratore dal potere di attrarre altre voci, altre storie, altri ricordi, che tutti voi state condividendo con noi.

Ad ogni incontro e in ogni luogo, voi scrivete il vostro libro mentre noi vi raccontiamo il nostro.

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Lucciole e lanterne

Lucciole e lanterne

Il tuo vetriolo, versato copiosamente in quattro righe saccenti, era finito in tutti questi anni accanto alle chiavi di una casa non più mia, all’accendino scarico, a un rossetto scaduto e alla lista della spesa, contenuto totale di una borsetta passata di moda dimenticata dentro un armadio.

Ripenso alla nostra amicizia, alle nostre risate e complicità, alle uscite a quattro dopo i rispettivi matrimoni, alle gite fuori porta, alle cene, ai compleanni… Complici indivisibili, una vita vissuta l’una all’interno dell’altra, come il liquido in un bicchiere.

Poi, tutto è cambiato. L’aria si era fatta irrespirabile, pregna di occhi sfuggenti, di assenze improvvise, scuse inventate lì per lì. Ti sottraevi a me e rifiutavi di ammetterlo, insultando la mia intelligenza. E, dopo poco, l’inevitabile scontro.

Altri tempi, tempi in cui accusavo te di doppiezza, lui di tradimento, oramai conscia che fossero doppiezza e tradimento la nuova alleanza. Tu, e lui. Tempi in cui piangevo quando gli sentivo addosso il profumo di casa tua, così inconfondibile, a me familiare, mentre rincasava dicendo d’essere stato in ufficio.

Oggi sono qui, sola, con la borsa dalla cui bocca spalancata viene fuori qualcosa che mi restituisce l’esatta dimensione della mia ingenuità; riconosco il foglio ripiegato così come si riconoscerebbe per sempre il coltello che ci ha quasi dissanguati.

Come dimenticare? Me lo lasciasti allora, sul vetro della macchina, quando non volevo più parlarti dopo aver cacciato di casa il mio uomo. Un foglio ripiegato, solo questo, dove mi scrivesti:

Quando punti un dito alla luna,
per indicare la luna,
invece della luna
gli stupidi guardano il dito.

Una citazione, nient’altro. E io continuai a non capire, a sentirmi derisa. Mi si stava dando della sciocca: perché? Perché infierire? Che cosa avrei dovuto vedere, oltre al mio naso? Quella citazione, riportata sulla carta dalla tua mano, mi tenne compagnia a lungo nel tempo della rabbia.

Poi, più tardi, furono tempi della verità e delle scuse che ti dovevo.

Tempi in cui il tuo uomo e il mio, alleanza che mai avevo previsto, andarono altrove a sudare insieme sotto le stesse lenzuola.

(un mio racconto breve)

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L’arte della comunicazione

L'arte della comunicazione

Molte delle persone che incontro o che ho incontrato nel passato, hanno lamentato un senso di oppressione dato dalle invisibili sbarre del quotidiano, unito a vuoti lasciati dalla solitudine, dalle incomprensioni, dall’incomunicabilità. Ma… e se la vera prigione fosse la nostra mente chiusa che si oppone all’esterno?

Forse non siamo preparati sufficientemente all’arte della comunicazione, all’uso corretto delle parole, dei silenzi, degli sguardi o dei sorrisi, né siamo così aperti da guardare in faccia i nostri limiti, i nostri “difetti”. Ne siamo spaventati, e allora meglio osservare e giudicare i limiti altrui…

Ma se soltanto ognuno di noi fosse in grado di facilitare la comunicazione dell’altro, quanto sarebbe più naturale “ascoltare”, “sentire” e soprattutto comprendere, riconoscersi negli altri, condividere autentiche fragilità piuttosto che mostrare forza e determinazioni fasulle.

Le parole sono tutto ciò che abbiamo, ha detto qualcuno, eppure quanto poco e male le usiamo. E dov’è finita l’empatia? Quell’ascoltare un altro con limpidezza, con attenzione autentica, facendo il vuoto dentro per lasciargli spazio e sforzandosi di immedesimarsi in lui, nei suoi bisogni, nei suoi disagi, senza valutarli né giudicarli.

Quanta fatica, questo nostro camminare tra gli altri, quanto possono diventare nodosi ciocchi di legno, le nostre gambe, quando affondiamo nel timore di non essere più in grado di distinguere i convenevoli dall’autenticità. Impervie salite, discese improvvise nelle quali precipitare, e scale, scalinate di pietra, di marmo, dapprima comode poi ripide, malferme o disastrate, dove temere di cadere, di perdere l’equilibrio, dove muoversi incerti, insicuri, timorosi.

Tuttavia il gioco vale la candela, perché è negli altri che ci completiamo, in ogni incontro, in una amicizia, nell’amore, in uno scambio. E che importa se in passato siamo stati delusi, negli incontri, nelle amicizie, nell’amore o in uno scambio. La memoria non può non essere bagnata di lacrime, ne è un grande contenitore, ma il presente necessità di contatti umani sempre e comunque: conoscete qualcuno che si senta felice e non avverta in questa felicità l’esigenza di condividerla? E ancora: conoscete conoscete qualcuno che si senta felice e non avverta in questa felicità l’esigenza di condividerla?

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