Susanna Trossero

scrittrice

Pesce d’aprile!

Ma voi vi ricordate i pesciolini di carta appiccicati sulla schiena degli amici ignari, ai tempi della scuola? Io riuscivo ad attaccarli addirittura con uno spillo senza che i miei compagni se ne accorgessero, se non quando venivano additati dagli altri tra ridarelle generali. Ovviamente, i pescetti di carta li ho subiti anche io e tra i cimeli di un tempo, custoditi nella mia cameretta a casa di mia madre, ancora resiste qualcuno di loro, conservato per ricordo. Quando mi capita di rivederli, sento il vociare dell’uscita di scuola farsi largo in me, e il profumo della primavera, quello delle mimose in fiore, tutto quel bianco delle margheritine, il rosso dei papaveri sul ciglio delle strade, capaci di crescere ovunque. E i giubbotti sulle spalle, il senso di liberazione dopo la campanella…

Ieri pomeriggio, alla libreria romana L’altracittà ho risentito e rivisto per un attimo tutto questo, durante la presentazione curata dalla Graphe.it del delizioso libro “Breve storia del pesce d’aprile”, Giuseppe Pitré, testo che ha visto la luce per la prima volta nel 1886.

Sì, perché il pesce d’aprile lo conosciamo tutti ma io per prima – e chissà quanti di voi come me – non sapevo venisse da così lontano!

Dietro questo insolito saggio del 2023 arricchito dagli approfondimenti antropologici di Carlo Lapucci, dalla divertente appendice della giornalista Roberta Barbi e da illustrazioni e vignette, c’è un gran lavoro di ricerca, coordinamento, organizzazione, per uno scanzonato fenomeno di costume che oramai tutti conosciamo e di cui in realtà sappiamo molto poco. Il tocco di leggerezza presente nel testo e quel simpatico regalino (un pescetto di cartoncino bianco da ritagliare), rendono il tutto ancora più accattivante.

Insomma, ho passato un bel pomeriggio e mi appresto a leggere “Breve storia del pesce d’aprile”.

Mi piace molto incontrare approfondimenti inusuali, cosa che nella collana Parva accade sempre. Scrive la casa editrice: “Parva è una collana di saggistica breve con l’intento di porre domande e far scaturire riflessioni. Testi brevi ma approfonditi curati da specialisti di vari settori del sapere umano che invitano a fermarsi e chiedersi cosa poter fare perché l’incendio possa divampare”.

E allora, che l’incendio divampi e… buon pesce d’aprile (mi raccomando non siate troppo cattivi!)

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Il domani che non c’è

Ci sono dei giorni che non sono giorni ma grovigli di pensieri difficili da districare.

L’istinto impone di sottrarsi e dormire, trasformandoli in notti che li annullano: basta chiudere le imposte ed ecco il buio che salva e legittima la fuga.

Ma sono giorni, e vanno affrontati, accettati, usati per comprendere, riflettere, districare proprio quei nodi composti di fatti, circostanze, sensi di colpa o alibi.

Avremmo dovuto fare delle telefonate in più. Far di tutto per incontrarci più spesso. Smettere di crederci tutti immortali e usare meglio il presente per non avere rimpianti, addirittura rimorsi.

Il nostro vivere e quello di chi ne fa parte insieme a noi, è dato per scontato con la presunzione che ci invade e neppure ce ne accorgiamo. Affiorano dopo, i nostri limiti. Soltanto dopo. Quando quella telefonata in più non puoi più farla e tutto diventa assenza vera.

Ho riso tanto, con te. Ho pianto quando tu hai pianto, ma sono anche cresciuta ammirando quel tuo avere le idee chiare su tante cose, osservando la tua bella famiglia e vedendoti roccia e perno dei suoi membri. Mi piacevi, sai? E per fortuna te l’ho detto più volte, e più volte ti ho raccontato del mio amore per te. Almeno di questo non mi rammaricherò mai.

Ma è difficile pensare di non poterti dire tanto altro, di non ascoltare tanto altro, e di non sedere più alla tua tavola. Ed è questo a creare un senso di soffocamento da nodo scorsoio. I legami sono abbracci che divengono corde cattive quando via via perdiamo i pezzi per strada provando il rimorso di non essere stati più presenti.

Eppure, procediamo imperterriti rimandando l’incontro o la telefonata a domani, ripetendo l’errore che domani ci strangolerà.

Domani, sempre domani.

“La gente si preparava sempre al domani. A me sembrava assurdo. Il domani non si stava certo preparando per loro. Non sapeva neppure che esistessero”. (Cormac McCarthy)

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Aprire le imposte

Stamattina sto pensando ai preconcetti. Quelli che ci fanno tenere le imposte chiuse. Quelli che abbiamo tutti, chi più chi meno, nei confronti di persone e situazioni. Di fatti o argomenti di vario genere.

Ci facciamo un’idea, a volte scaturita da vera informazione e approfondimento di tale argomento, altre volte inquinata dall’influenza d’altrui pensiero, altre ancora viene fuori da ottuse prese di posizione, da conclusioni affrettate, semplicistiche, addirittura anche prive di ogni fondamento.

Sbagliamo, siamo umani. Accorgersene e ammetterlo è una buona soluzione. O valutare altre possibilità che ci insegnino a non generalizzare, a non crearlo noi, il preconcetto.

Per esempio, ho sempre avuto un pregiudizio sulla vita dei cani dei “barboni”: come li trattano? Di certo non sono curati! Mangiano?

Da poco mi è capitato di vedere un senzatetto che divideva la coperta e del cibo con il suo cane, là sul marciapiede. Un pezzo di pizza a lui, un boccone al cane. Sono rimasta in silenzio ad osservare, poi sono entrata nel piccolo negozio di pizze al taglio poco più in là e ne ho preso dell’altra, per loro. Il pregiudizio andava frantumandosi già quel giorno.

Oggi ho letto questa notizia della quale faccio un copia e incolla, perché mi ha colpita e affondata, facendomi rivedere ancor di più la mia posizione e commuovendomi.

“Dal 1 febbraio è chiuso in una gabbia alla Muratella: adesso Aron cerca una nuova famiglia dopo la morte del suo padrone Ionel, il clochard di Ostia che ha rifiutato più volte il ricovero per non lasciarlo nel canile. Una storia che ha appassionato e commosso il web e Ostia. Adesso Aron, alaskan malamute di 4 anni chippato e con tutte le vaccinazioni, è stato messo in adozione dal canile della Muratella e la nuova famiglia che lo prenderà sarà seguita e assistita, durante il periodo di adattamento, dai volontari della Lega nazionale del cane: è sufficiente chiamare al numero 3332729049 o scrivere una mail all’indirizzo legadelcaneostia@gmail.com.”

Ho voglia di darvi il buongiorno così, con le mie riflessioni, con mie imposte che si schiudono e con qualcosa che ha scritto Margaret Mazzantini:

“I barboni sono come certi cani, ti guardano e vedi la tua faccia che ti sta guardando, non quella che hai addosso, magari quella che avevi da bambino, quella che hai certe volte quando sei scemo e triste. Quella faccia affamata e sparuta che avresti potuto avere se il tuo spicchio di mondo non ti avesse accolto. Perché in ogni vita ce n’è almeno un’altra.”

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Disintossicarsi dalla realtà

Quanto tempo è passato, dall’ultima volta che qui ho esternato i miei pensieri… Tante cose sono accadute e ogni volta sentivo quella vocina interiore che mi suggeriva di dire la mia, ma quando aprivo questa pagina e mi appariva l’esortazione iniziale “scrivi nuovo articolo”, restavo a guardare lo spazio bianco muto come me. Perché a volte tutto sembra così inutile…

Inutile dire quanto mi abbia indignato l’idea che per paura delle parole si debbano censurare capolavori della letteratura e davanti ai fatti subentri al contrario l’accettazione vigliacca.

Inutile dire quanto ho trovato ridicolo raddrizzare il tiro sulle storie per bambini di Roald Dahl offrendo loro chissà quale operazione a favore dell’inclusione, quando sarebbe così facile tornare al tempo in cui erano le famiglie e la scuola a predisporre i bambini alla capacità di discernimento.

Inutile dire quanto ho trovato orrenda la richiesta di selfie alla moglie di Costanzo davanti alla bara di suo marito e ancor più orrendi i commenti sui social che dicono “è colpa sua, che si becchi anche questo”. E inutile dire che mi ha infastidita una Chiara Ferragni paladina delle femministe a Sanremo, per via di tante cose che non sto ad elencare, anche questo sarebbe inutile.

Ed è terribilmente inutile scrivere dell’ultima strage in mare di migranti, o delle bambine avvelenate in Iran per far chiudere le scuole femminili.

Ecco, ecco perché sono stata zitta e buona, in silenzio. E ho compreso ancor di più una persona a me molto cara che di recente mi ha detto di aver scelto – per un tempo che ancora non ha quantificato – di non voler vedere per un po’ i tg, di non voler ascoltare notiziari, di non voler leggere nulla che riguardi l’attualità. “Mi disintossico – mi ha detto – perché farlo mi restituisce un po’ di serenità”.

Non significa restare in superficie, né fare lo struzzo. Significa prendersi una vacanza dalla realtà, concedendosi al proprio quotidiano fatto di famiglia o di passioni, o di piccole cose. Io l’ho fatto, adesso sono tornata, ma riprendo da dove avevo interrotto: dai libri, dai pensieri che vagano, dai sogni e dai progetti. Dalla bellezza, così come io la intendo. Che può essere anche in un cielo da fotografare, nel profumo di una torta appena sfornata, nella presenza di qualcuno che ti dimostra amore, nell’amore stesso per le piccole cose.

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Il dolore di un dipinto

Aveva due sacchetti della spesa con poche cose all’interno. Stava in piedi tra la calca dei passeggeri mentre il bus ci faceva ondeggiare tutti.

Piangeva. Ma piangeva poche lacrime che asciugava con il dorso della mano, senza delicatezza.

Piangeva più che altro con l’espressione del viso sfatto e stravolto dal dolore, quel dolore che ingrigisce l’incarnato e rende le rughe profondi solchi.

Lo conoscevo, quel dolore, e l’ho riconosciuto: è quello di molti antichi dipinti raffiguranti un volto femminile con lo sguardo perso nel vuoto, il capo inclinato di lato, la bocca aperta affamata d’aria che pare non arrivi.

Il dolore, nei quadri, rende le donne Madonne, madri mutilate, ed è questo che ho visto in lei. Era così sola, in mezzo a tutti noi, e se l’istinto mi suggeriva di scendere alla sua stessa fermata per offrirle aiuto o supporto anche solo con una voce amica, la ragione e l’educazione mi hanno imposto rispetto e discrezione.

Il buio della sera appena cominciata l’ha inghiottita, mentre le porte si richiudevano. Ciò che mi ha invasa, non era meno amaro del suo incedere altrove. Nessuno l’ha seguita con lo sguardo, solo io e la via se l’è presa.

Credo avesse poco meno di 70 anni ma più di 100 dimostrava il suo viso.

Se davvero fosse stato un quadro, l’artista l’avrebbe intitolato Agonia. Perché di questo si trattava… Pena, strazio, tormento.

Io rientravo da una visita all’interno di Castel Sant’Angelo, ero felice ma il suo dolore mi ha colpita e affondata.

Non smetterò mai di domandarmi che cosa l’ha invasa e se soccomberà.

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