Susanna Trossero

scrittrice

A caccia di semplicità

La Pasqua, la primavera, l’idea delle vacanze che fa capolino dopo i primi tepori, la fioritura che invita alla positività o al movimento, alla vita all’aria aperta…

Eppure tante cose sono andate perdute e per molti non sarà facile riconquistarle. Per esempio quella normalità che davamo per scontata, fatta di mezzi pubblici affollati, bar e ristoranti da frequentare, assembramenti per un concerto o una mostra o chissà quale evento, viaggi affrontati con leggerezza. Ecco, la leggerezza. Mi manca da morire. Non sto a raccontarvi se ho avuto il covid o no, se di covid ho perso qualcuno, o chi dal covid sto proteggendo e perché. Nessun discorso sui vaccini, né contro né a favore. Nessuna polemica. Sto parlando solo di una grande nostalgia per quella scioltezza d’azione di un tempo non lontano, che se applicata a questi due anni si trasforma in possibile sconsideratezza.

Era così bella, l’incoscienza. Milan Kundera sostiene che la leggerezza dell’essere è insostenibile; è una finzione, uno schermo dietro cui nascondere la pesantezza dell’esistenza, dice. Ebbene, ci fa comprendere però l’utilità di questo schermo, per riuscire a ritagliarci uno spazio all’interno del quale non soccombere al peso della vita.

La rivoglio, voglio trovare un nuovo modo per ricreare quello spazio. Abbiamo vissuto una non vita e ancora in parte la stiamo vivendo, e non intendo limitare il discorso alla mancanza di un aperitivo al bar. Mi sono mancati i sorrisi, gli abbracci, la libertà di vivere con le persone che più amo ogni situazione del quotidiano. Mi manca la primavera quella autentica, fatta di colori e nuovi fiori sbocciati dentro la testa a mo’ di progetti.

Mi manca ciò che siamo sempre stati quasi senza accorgercene, perché quella semplicità era parte di noi dunque non ci si faceva caso. Ma le cose semplici non tradiscono, non sanno ingannare, deludere, illudere. E sono il fondamento della serenità.

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Vacanze romane

Il risveglio, in queste mattine d’agosto, è sempre scandito da una routine rilassante e placida. Le auto si muovono in lontananza ripartendo all’incrocio in base ai paterni consigli dei semafori. E sono poche, finalmente, perché Roma va svuotandosi fino a diventare vivibile, quasi a misura d’uomo, ecco perché oggi pare che loro – i semafori – non impongano ma suggeriscano.

C’è un lieve manto sulla distesa di case e strade, una coltre che ricorda la nebbia sui laghi, e annuncia calura mentre i cani passeggiano al guinzaglio.

La Moschea di recente costruzione svetta a est, mentre a sud la Cupola di San Pietro si vanta della sua età che la rende superiore alla città stessa e per questo quasi magnanima.

Dall’alto, i platani sembrano cespugli e i cespugli quasi scompaiono; oggi qualcuno nascerà e altri se ne andranno, mentre vacanzieri ignari intaseranno le autostrade…

In questa calma cittadina che alla calma invita, c’è un che di rassicurante che vorrei sfruttare per sfrondare le mie ore da ogni “da farsi subito”, e riempirle di “lo farò domani”. Perché vacanza non è solo un albergo lontano da casa, ma uno stato mentale. Un liberarsi dalla quotidianità, dalla sveglia, da ritmi e incombenze, per vagare indolenti nel proprio ambiente trasformandolo in oasi di pace.

Uscire per riscoprire il piacere del silenzio al tramonto, l’afa allontanata dalla brezza serale; le cicale ancora allegre, le strade vuote.

Un aereo, il primo del mattino, porta via altre persone contribuendo alla mia ricerca di suggestioni che solo le cornacchie riempiono di voci.

Complici le varianti Covid e la pigrizia, mi godo la città inseguendo la noia, condizione attraente e sottovalutata. Ho gelati a sufficienza, buoni libri da leggere, la giusta compagnia e scarpe adatte per camminare. Per trascorrere un agosto nella capitale non necessito d’altro.

In pace con il mondo vi auguro buone vacanze, ovunque voi andiate o decidiate di restare. Ma ricordate:

“Essere in vacanza è non avere niente da fare e avere tutto il giorno per farlo”. (Robert Orben)

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No vax vs pro vax

Si attendeva d’essere migliori. Si contavano i morti come in battaglia e si diceva “tutto questo domani ci renderà meno distratti, più vicini gli uni agli altri, più attenti al prossimo e con il rinnovato piacere – o la scoperta – per le piccole cose”.

Io mi domandavo: perché non cominciamo subito, ad essere migliori? Perché attendere sempre “domani”?

Forse dentro di me la risposta l’avevo già. Sapevo. Sapevo che il piacere delle piccole cose e della vicinanza con gli altri lo devi avere dentro, e se non lo conosci non è una pandemia a risvegliarlo. Perché non è sopito ma spesso solo assente, sconosciuto. Chi lo aveva, chi lo provava o conosceva, lo ha custodito e protetto in attesa della “normalità”.

Tutto qui.

A distanza di poco meno di un anno e mezzo dall’inizio di questa guerra al virus degna di un romanzo di Stephen King, non siamo migliori affatto, e la “normalità” è ancora miraggio.

Adesso sui social ci si insulta per il green pass, non vax VS pro vax, e ci si deride, ci si offende, ci si minaccia, o ci si banna. Perchè adesso funziona così: se non voglio frequentarti ti banno. Ti dimostro che posso cancellarti, che per me non esisti.

“Chi non è favore del vaccino, chi non vuole vaccinarsi, non è più il benvenuto nella mia bacheca”. O, all’opposto: “Chi posterà commenti osannando il green pass non sarà accettato tra i miei amici!”

Fazioni. Trincee. Da entrambe le parti. Dunque è così che siamo diventati migliori. Eppure, eliminando fanatismi o pseudo ribellioni al sistema che “ci rende schiavi” (sento queste frasi dagli anni ’70), tutti gli altri sono spinti dalla medesima molla: la paura. E allora dove sta la diversità, dove il nemico, perché la rabbia?

Siamo uguali, facciamocene una ragione e deponiamo le armi. La paura ci rende simili, deboli, ma costruisce l’inutile forza per aggredirci l’un l’altro.

C’è chi ha paura del vaccino: è vero, non sappiamo molto sugli effetti che potrebbe produrre nell’organismo domani. Paura lecita. C’è chi, all’opposto, ha paura di non vaccinarsi: il Covid incombe, abbiamo perso i nostri cari, alcuni morti da soli, in casa, altri si stanno sottoponendo a rieducazione dopo intubazioni troppo lunghe, altri ancora descrivono calvari da terapia intensiva. Paura lecita.

C’è chi ha paura di essere contagiato da chi non ha paura del contagio, e c’è chi ha paura d’essere un esperimento per le case farmaceutiche. Paura, sempre paura. Che anziché accomunarci tutti, tutti ci allontana. Magari rendendoci anche sciocchi, basta leggere i pesanti insulti da entrambe le parti a entrambe le parti rivolti.

Poi c’è anche dell’altro: “Il green pass è un organo di controllo”. Ho letto anche dei paragoni con la stella degli ebrei. Hitler è stato riesumato. E ancora: “Il green pass ci rende schiavi, burattini, spiati e pilotati”.

Il telefonino, l’essere sempre in rete, il tracciamento, le mode, le indagini di mercato, la geolocalizzazione, i social, i movimenti con bancomat e carte di credito, i biglietti nominativi dei treni… e poi è il green pass che ci rende schiavi o controllati?

Ma giù manifestazioni come se piovesse: contro lo stato padrone, centinaia di persone si accalcano nelle piazze senza più proteggersi, altrimenti che ribellione è?

Da millenni, la paura che dovrebbe fungere da “strumento” di protezione, diventa in realtà il nostro peggior nemico levando lucidità, capacità di discernimento.

A chi dice “sei vaccinato, perché temi chi non lo è se credi nella tua scelta?”, vorrei rispondere che il vaccino non è la bacchetta magica, ma un’arma che ci aiuta nel proteggerci ed ha un margine di rischio più o meno basso ma esistente. E allora, tu che non sei vaccinato, sei il margine di rischio per chi al vaccino si è sottoposto. Allo stesso modo, chi è vaccinato non è con gli insulti che annulla negli altri la paura di un vaccino appena nato.

Siamo tutti sulla stessa barca, accomunati da timori e perplessità che tuttavia ci rendono nemici.

Non importa come la penso io: a fare ciò che reputo giusto per me nessuno mi ha convinta né io devo convincere nessuno. Ma non vogliatemene se vivo in pace anche in tempo di guerra: forse non sono un buon soldato, ma si può non esserlo e al contempo non sentirsi sudditi.

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