Susanna Trossero

scrittrice

Il tramonto, per esempio

Percezione. Ognuno ha la sua, è indubbio. Può dar vita a un presagio, a una intuizione, a un presentimento o a una sensazione.

A dire il vero sono considerati sinonimi del termine, ma a me piace pensare che da esso scaturiscono a seconda di come noi viviamo qualcosa.

Il tramonto, per esempio. A osservarlo con il cuore in pace, pace se ne ricava. Una malia, una suggestione che rinnova il miracolo dei colori, del dipinto che il cielo diventa dinnanzi ai nostri occhi. Può addirittura invaderci di gratitudine.

Ma lo stesso dipinto può trasformarsi in qualcosa che non tornerà più: un senso di perdita, la fine non solo del giorno, l’ineluttabilità. Nessuna gratitudine, no, addirittura qualcosa da maledire, la cui magia ci addolora.

E c’è il tramonto impregnato di nostalgia, di tempi andati sui quali fantasticare riavvolgendo il nastro… Le cose non fatte, gli “avrei dovuto” ma anche i pentimenti per quelle fatte, o il rimpianto per quelle che avremmo voluto fermassero il tempo.

Il sole tramonta comunque, ha scritto Jeffery Deaver, sia sul giorno migliore, sia sul giorno peggiore. Ed è vero, ma per me è sempre un incendio le cui fiamme scaldano o bruciano, a seconda del momento. In entrambi i casi, la bellezza mi lascia senza fiato e le due differenti sensazioni vengono zittite davanti a tanta meraviglia.

Forse è proprio questo che dovremmo imparare a fare: godere di uno spettacolo alla portata di tutti, liberando la mente. E mi piace l’immagine ragalataci da Pablo Neruda nella sua poesia “Ancora abbiamo perso questo tramonto”, quando dice che sempre, nel tramonto, si prende in mano un libro. Un libro… pagine nelle quali cercare l’abbraccio per quel sole che va a morire. Un saluto di parole, un’immagine per godere di quelle scelte per noi da altri.

Oggi il mio libro è “La settima onda” di Daniel Glattauer, ma questa è un’altra storia e ve la racconterò la prossima volta…

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Ascoltare un libro

Adele, romanzo di Susanna Trossero e Francesco Tassiello

Manuali di scrittura, laboratori, corsi, seminari… Tutti vogliamo scrivere, tutti abbiamo qualcosa da dire o raccontare, ma… e se imparassimo di nuovo ad ascoltare?

Parlare è una necessità – diceva Goethe – ma ascoltare è un’arte. Leggere, è lasciarsi andare alle storie che altri ci raccontano, è saper stare da soli in mezzo alle parole, essere padroni del nostro tempo al punto di non ritenere perso quello dedicato al libro.

E quando incontri quello giusto, non lo dimentichi più, così come non dimentichi qualcuno che ha compiuto un bel gesto nei tuoi riguardi: puoi dimenticarne il volto o la copertina, ma ciò che ha fatto per te, la storia che il vostro incontro cela, quella verrà ricordata.

Eppure c’è ancora tanta gente che guarda al libro come a qualcosa di noioso, impegnativo… Non un oggetto del desiderio bensì un oggetto. Niente di più.

In tanti non sappiamo più sognare, eppure in tanti vogliamo scrivere.

Sarebbe bello, un mondo in cui la gente si riavvicinasse al libro, lo sfiorasse, lo sfogliasse così come se aprisse un forziere cercandovi dentro segreti e tesori. Ne troverebbe così tanti… E ricomincerebbe a scrivere con l’amore che ogni parola usata merita.

I miei “ragazzi” non più ragazzi, in classe hanno negli occhi un mare di storie; alcune faticano a venir fuori, altre smaniano per esser raccontate. Storie lette o scritte che si mescolano in quella sete di parole che li contraddistingue. Sono loro, per me lo scrigno; sono loro le mie letture del momento, perché scoprire altri “esemplari” della mia stessa specie mi fa vedere che non tutto è perduto.

È davvero così difficile vedere un libro come muro portante della casa? Non farlo, significa limitare l’apprendimento, dunque anche la nostra capacità di interagire, di scegliere, di giudicare, di sapere, di… scrivere!

Mi colpisce molto l’irriverente frase di Massimiliano Parente, che dice “Cogito ergo sum, ergo scrivo, ergo mi autopubblico, ergo mi autoleggo e chi s’è visto s’è visto. Stringi stringi: che bisogno c’è dell’editore? Mi pubblico io. Che bisogno c’è del lettore? Mi leggo io.” Dovrebbe divertirmi, eppure mi rattrista.

In questa realtà di scrittori a ogni costo e di non-lettori, ci vorrebbe qualcuno disposto a ricordare alla massa che “Una buona lettura, una lettura positiva, è quella che ti insegna a pensare da solo”. In realtà, questo qualcuno c’è, è messicano e si chiama Rogelio Guedea, la cui filosofia è non leggere domani quello che puoi leggere oggi.
Eccolo, un autore che può insegnare a leggere… A chi? A chi ancora non lo sa fare o a chi ne ha perduto il piacere per strada, per esempio. Perché il libro ci dice quello che nessun altra forma di comunicazione può, vuole o riesce a dire.

Il mestiere di leggere (Graphe.it ), è un testo così educativo, così pieno di vibrante passione che – ne sono convinta – potrebbe portare sulla “cattiva strada” anche un non lettore.

Anche il Daniel Pennac di Come un romanzo (Feltrinelli), mi è piaciuto molto; è provocatorio, forse meno intenso nello stile rispetto a Guedea, eppure con ottima mira scocca le frecce giuste, affrontando il tema degli adolescenti che non leggono e ringraziando gli adulti per tutto ciò. La paura dell’eternità di un libro, il problema del tempo, della voglia, dei contenuti pesanti… Preconcetti, scuse. Parole vuote.

Leggere… come vivere senza un libro sul comodino? Come, senza uno in valigia, sul divano, o uno in borsa da prestare a un’amica che stiamo per incontrare?
Sapere che si ha qualcosa di bello da leggere prima di coricarsi è una delle sensazioni più piacevoli della vita. (Nabokov)

Mi rivolgo a chi sul comodino ha solo il telecomando: perché non provare?

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Il crepuscolo dei poeti afflitti

Il crepuscolo dei poeti afflitti

La pagina appare troppo grande, troppo vuota, e troppe sono le righe che la compongono e che la penna invano cerca di riempire, mentre la fantasia abbandona il campo. È questa, una giornata che non passa, un tempo che non scorre; perfino le nuvole faticano a lasciarsi trasportare dal vento, con i pensieri che a loro si agganciano e con loro si disperdono.

È l’ora in cui il tramonto non è più tramonto ma la notte appare ancora restia… il crepuscolo dei poeti afflitti, il momento dei baci rubati, il silenzio di uccelli e cicale.

Solo il vento resiste, provocando mareggiate tra le fronde degli alberi e producendo il fruscio che pare ruscello di montagna.

L’odore è quello della cena dei vicini; si spande nel quartiere per via delle finestre aperte, raggiungendo anche chi non vuol essere raggiunto perché preferirebbe il profumo dell’erba appena tagliata, là, nel giardino.

Ci vuol niente perché tutto si trasformi: all’improvviso ecco il calare del vento e del buio, con le nuvole si fanno minacciose e inducono a levar via i cuscini dalle terrazze; via la biancheria stesa, via le sedie in vimini, via le candele e via noi, abitanti di una serata come tante che si preparano al temporale estivo.
Quando la notte si fa decisa e inarrestabile, ci si arrende all’attesa del giorno dopo, e chissà se sarà quello della svolta, del nuovo che sorprende o del vecchio che mantiene al riparo.

Il foglio non è più bianco, vi si è trasferita la vita dopo il tramonto. Le finestre adesso sono chiuse, c’è un libro aperto abbandonato sul letto, qualcuno al piano di sopra guarda la tv.

Il sonno è di conforto solo a chi, come me, desidera ciò che già possiede.

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