Susanna Trossero

scrittrice

Ieri

ieri

In questi frizzanti pomeriggi invernali, sto leggendo Ieri, romanzo breve (o racconto lungo?) di Agota Kristof, storia che mi spinge verso riflessioni interrotte di continuo da punti di domanda…

Facile, per chi ama leggere, essere marchiato da un libro che ti viene incontro per caso – o su suggerimento altrui – e ti chiede di esser letto. Facile, divenire tutt’uno con una vicenda fantastica che contiene in sé tanta verità da accompagnare il pensiero di chi legge. Abbiamo discusso di questo romanzo al laboratorio di scrittura della Rai, di cui da tempo faccio parte, ed è stato per me illuminante.

Si supera davvero ciò che segna la nostra vita? Il passato, ci ferisce e mutila abbattendo ogni speranza futura, o il futuro ci aiuta ad affrancarci da esso?
In un’esistenza segnata da ferite mai del tutto rimarginate, è prevista la felicità?

Mi immagino devastazioni che persone a me care hanno vissuto o subito, segnate fin dall’infanzia o demolite un poco dopo, e vedo con occhi nuovi i loro sogni diventare sempre meno coerenti, le loro crisi esistenziali sfociare in bisogni e desideri da visionari… Le vedo non gestire la felicità, rifiutarla, difendersi da essa così come si fa di fronte ad un nemico!

Quanto può rendere infelici la felicità?

Loro lo sanno, oh se lo sanno, così come sanno che non si può sostenere a lungo l’equilibrata gestione di sé con una croce sulle spalle, reale o immaginaria che sia. Emotività spezzata, impossibilità di essere compresi a lungo termine da altri, vivere nell’errore che non vi sia per loro null’altro che questo.

Ma… sì, “ma”: ma davvero la guarigione dall’errore di valutazione (per me non ci può essere niente) è la soluzione? Ovvero, costruirsi un quotidiano più vicino possibile alla “normalità”, non potrebbe forse equivalere alla morte dei sogni? Alla non-vita? Allo scendere a patti e quindi alla rinuncia?

Faccio appello alle rivelazioni che mi giungono dallo stomaco e non dalla razionalità – mia amica, nemica, compagna di vita – fino a vedere smettendo di cercare. Ed è solo allora che comprendo che in loro la speranza vive e sopravvive nell’infelicità e nel dolore: divenendo scopo o sogno segreto, costruisce la forza necessaria a proseguire il cammino; è in quella condizione, che non temi di perdere. Perché se sei felice, altri hanno tutto ciò che serve per metterti al muro.

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La cassapanca

Accarezzarti mi dà sempre un vago senso d’angoscia, che sottile e malevolo serpeggia trasferendosi dai miei polpastrelli alla schiena. Tu stai là, in silenzio, sotto il quadro di un Goya degli anni più cupi, ad osservarmi dopo tanta lontananza, e forse a giudicarmi per tutto ciò che di me ti ho nascosto dall’ultima volta. Avrei voluto evitarlo, ma non scrivo più i miei diari da un’intera vita, dunque che ci resta oramai da condividere? Una casa vuota, vecchie inutili cose. Che altro?

“… ”

Il passato? Dici? Che tu mi stia sorridendo è quasi impossibile, surreale oserei dire, eppure… no, è una fenditura del legno, uno spazio orizzontale lasciato da chi ti ha costruita, un errore involontario quanto la scelta di quel verde marcio a ricoprire il tuo colore naturale. Sapevi di ghiande, un tempo. Ora di muffa, e il colore mi fa ben sperare che marcisca anche il tuo contenuto. Mi infastidisci. Sei brutta e saccente, con quella tua aria da io ti conosco. O forse sono io pazza, ad immaginare che una vecchia cassapanca voglia psicanalizzarmi. Eppure… chi meglio di te… No, devo andarmene. Ti volto le spalle afferrando le chiavi di casa. Hai la forma di una piccola bara, non sei più un piacere neppure per lo sguardo. Non sei solo brutta, sei tetra!

“… ”

Che cos’era? Eri tu? Eri tu! Hai sussurrato! No, era un tarlo. Che diavolo vuoi? Mi stai giudicando, tu pensi che io sia una vigliacca. Vuoi una prova di forza? Ecco, ti spalanco la bocca e i miei diari, le foto, quei datati taccuini, sono i tuoi denti aguzzi e cattivi. Ti maledico per la risata silenziosa, mentre mostri crudele tutto ciò che mi riguarda e che solo tu conosci.

Che fare? È un braccio di ferro. Una maledetta faccenda tra me e te.

Mio padre, da qualche parte, teneva una cassetta degli attrezzi. Sì, lo ricordo. Viti, bulloni, martello, tappi di sughero, un rotolo di spago. Eccolo: un lucchetto. Torno da te e stavolta boccheggi, ne sono certa. Ora sono io a sorridere, inginocchiandomi al tuo cospetto senza umiltà alcuna. Che credevi di fare, inutile ammasso di legno?

Riabbassando il tuo coperchio, ho la sensazione che in quel cigolio ci sia un opporre resistenza, ma non mi lascio turbare. Il lucchetto è chiuso, non esiste chiave. O almeno non era nella cassetta degli attrezzi. Me ne vado senza salutarti, dopo averti imbavagliata per sempre. Ora sì, sono certa che niente racconterai ad anima viva.

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Quante ere ci sono, nella nostra breve vita?

Quante ere ci sono nella nostra vita?Di quante ere è composta la nostra breve vita? Di quante stanze allestite al meglio per sentirsi a casa? Quali ricordare oggi, in questo luogo a me familiare?

Erano anni in cui il solo guardare dai vetri diveniva solitudine, in quel galleggiare di provincia; una provincia non mia nella quale sapevo d’essere di passaggio, seppur non conoscendo la vera meta del mio viaggiare.

La finestra era molto piccola e piccolo era lo spazio in cui vagavo, tra pranzi veloci e solitarie cene in camera davanti a vecchi film. Scrivevo lettere, leggevo Montale prima di dormire, e i vestiti del giorno dopo erano già pronti, là, sulla sedia.

Sconosciuta, mi muovevo in lunghe giornate di lavoro, con la biancheria stesa al sole, la via odorosa di pane appena sfornato, e le domeniche ad osservare il mare sognando di andare, andare, andare ancora più lontano di così.

Una vita fa o solo ieri?

Sono tornata dopo anni, in quella cittadina di naufraghi senza storia. Ai muri erano affissi grandi manifesti con il mio nome in evidenza, ho parlato al microfono e ricevuto applausi scroscianti.

Al momento del riposo, la finestra era un balcone che si affacciava sulla via principale e la camera era quella di un albergo.

C’è sempre un luogo da cui provieni e uno in cui vai. E i luoghi del passato si rivestono spesso di un clima autunnale, con piccole foglie arrugginite che planano sul cuore.

Tutti i luoghi, indistintamente.

Quelli dell’infanzia, quelli delle illusioni, quelli delle delusioni e quelli del cambiamento.

E sono tutti luoghi in cui non torneresti più, ma dai quali resti per sempre un poco attratta… Come se, in un angolo piccolo piccolo di te, là ti sentissi ancora a casa.

 

 

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