Le domeniche romane, in questa nuova stagione che non è già più primavera né ancora estate, sono perfette per visitare mostre e musei. La gente comincia a raggiungere Fregene, il Lido di Ostia, e i turisti nelle ore centrali della giornata cercano un po’ di refrigerio all’ombra dei monumenti, o nelle gelaterie. Ecco perchè, giorni fa, la mostra di Salvador Dali, al Vittoriano in piazza Venezia, era accessibilissima: nessuna coda alla biglietteria, pochi visitatori, il giusto silenzio.
Una mostra molto interessante e varia, che abbracciava tutte le abilità, le bizzarrie e le inclinazioni di Dalì, che nella sua lunga vita è stato pittore, disegnatore, scrittore, illustratore, orafo, scenografo, ma anche un pensatore, un cineasta, un appassionato di fotografia e di scienze… e uno scomodo personaggio che adorava scandalizzare e attirare l’attenzione su di sé.
Dalì ha dipinto più di 1500 opere, ma alla mostra erano esposte solo quelle che avevano un collegamento con l’Italia, affiancate da abiti di scena per il teatro da lui disegnati, da busti da lui scolpiti, da fotografie, copertine di riviste a lui dedicate, filmati, documenti, progetti, tavole di fumetti, addirittura una vecchia Vespa da lui decorata!
Vagare tra le sue cose pubbliche e private (quale era per lui il confine tra le due?), respirando il suo grande amore per la donna della sua vita e quello per se stesso, mi ha fatto soffermare sul fatto che spesso, dietro un artista che lascia il segno, c’è un padre che non crede che la sua inclinazione gli darà da vivere, e una madre che invece lo appoggia. Accade spesso, la storia ce lo racconta. E mi chiedo, dopo tanta conflittualità, se quei padri siano disposti a dire “avevi ragione figlio mio, bravo!” Quanti esempi abbiamo? Il padre di Kafka non riconosceva la grandezza letteraria di suo figlio, Saba aveva rapporti limitanti e frustranti con il suo genitore, e tanti altri grandi della letteratura o della musica e della pittura, si muovevano nella stessa deleteria situazione. Su internet ho trovato un lavoro dettagliato sui rapporti conflittuali tra padri e figli nell’età del Risorgimento, che così spiega:
“I genitori esprimono la completa adesione al contesto sociale borghese del tempo, sono portatori dei valori di stabilità e conservatorismo e si impongono sui figli con autorità in alcuni casi, divenendo una figura possessiva e violenta, che umilia continuamente il figlio “diverso” da lui, o provocando in loro una repressione indiretta e inconscia in altri, che fa nascere nel figlio il senso di colpa, di disadattamento e di impotenza. Il figlio giunge a provare nei confronti del padre non solo odio, ma allo stesso tempo anche invidia e gelosia per la sua stabilità sociale, economica e interiore.
L’unico motivo di riscatto del figlio è il poter contare su un senso di superiorità intellettuale, che gli permette di essere “migliore” del padre almeno in un aspetto del vivere.”
Riflessioni di una domenica pomeriggio, ammirando i baffi-antenne di Dalì, che alla faccia di chi lo ostacolava o di un padre che non aveva creduto nel suo genio artistico, così diceva di se stesso:
“Ogni mattina, appena prima di alzarmi, provo un sommo piacere: quello di essere Salvador Dalì”
Forse tutti dovremmo trovare dentro di noi una ragione per provare lo stesso intimo e spudorato piacere.