Susanna Trossero

scrittrice

Storie da rubare

storie da rubare

Sono gli occhi, a colpirmi. Insomma, non proprio gli occhi ma gli sguardi. All’andata, sulla tratta Ostia-Lido – Porta San Paolo, sono perduti in chissà quali pieghe del cuscino, rimaste ancora là tra le ciglia o dentro la testa. Al mattino, ci sono facce lavate di fresco, aliti di caffè, dopobarba dozzinali e libri da cominciare. E io, che faccio questa tratta per rubare storie, osservo non più assonnata ma attenta a cogliere sfumature che svelino qualcosa di interessante… Un amore finito o appena cominciato, un rimpianto, una stanchezza nuova o un progetto che crea aspettative dilatando le pupille. I discorsi sono vivaci solo tra studenti, ventate di primavera, freschezza non ancora appannata dal viaggio quotidiano, perché la giovinezza è già viaggio e non si avvede di binari né di posti in piedi. Gli altri, i pendolari, sono silenziosi, a quell’ora. Hanno già vissuto la difficoltà del parcheggio alla stazione, il ritardo o la sensazione di aver sbagliato abbigliamento, che non ci sono più le mezze stagioni.

La signora elegante, le perle alle orecchie, è prossima alla pensione e guarda il nero come fosse un intruso. Lo guarda, e non importa se è ben vestito e ha l’aria curata, magari è un ingegnere, ma è nero e si sa che quelli arrivano con i barconi per farci saltare in aria. Con quegli occhi così severi, lei di certo era una ribelle, da giovane. Ha fatto impazzire suo padre e andava sempre controcorrente, che quelle quando “maturano” sono le peggiori. Storie. Mi piace spiare quei visi a me estranei per inventarle. Ho un taccuino per prendere appunti, sono una ladra.

Lui è già sudato di buon mattino e controlla il telefono ogni due minuti. Lei non gli ha dato la buonanotte ieri, era distratta e forse ora si fa bella per qualcun altro. La fronte è lucida, è troppo vestito per queste caldane da gelosia ossessiva, ma non può rimediare e si agita sul suo posto a sedere conquistato a fatica. Non reggerebbe a stare in piedi con tutti quelli che ti sfiorano o ti si poggiano contro. Eppure, in quella orda di pendolari e soffocato dal pensiero di lei che se la spassa, trova modo e voglia di guardare con cupidigia le due ragazze straniere che sbadigliano e controllano le fermate perché ancora non hanno capito a che altezza sta Piramide. “È il capolinea, non potete sbagliare”, vorrei dir loro, ma così finirebbe la storia e non è ciò che voglio. Mi piace memorizzare l’aria dubbiosa, l’incertezza nei gesti, la difficoltà che rende la loro vacanza più intrigante e adrenalinica.

C’è un uomo intorno ai quarant’anni che tiene tra le mani una cartella. Verifica di continuo che al suo interno ci sia tutto: carte che hanno l’aspetto di qualcosa che conta. Immagino stia andando in ospedale a cercare risposte al suo male, ma sua figlia ha pregato i medici di non dire tutta la verità, di ingentilirla almeno un poco, per lasciarlo tranquillo. Eppure lui tranquillo non è perché ha capito più di quanto avrebbe voluto. Sta in piedi, oscilla ad ogni curva e più che sperare teme. Lo dicono i suoi occhi e quando incontrano i miei gli sorrido. Un giorno, quando ricorderà questo momento, anche io farò parte della storia, perché lo avrò fatto sentire meno solo.

Non voglio perdermi i respiri né i sospiri, le parole o i silenzi, lo sferragliare e i cigolii.

Porta San Paolo, capolinea, ma tanti erano già scesi a Eur Magliana.

Vado in centro, a passare le ore in attesa del momento giusto per tornare indietro. Anche là, per la strada, c’è tanto da rubare.

Ma è nel ritorno che trovo più suggestioni: la stanchezza, l’alienazione, la smania di raggiungere qualcosa o qualcuno dopo tanta lontananza, il sollievo perché anche stavolta la giornata è finita, la capacità di rilassarsi tra le pagine di un libro o con giochini sul telefonino, senza perdere di vista le fermate. I saluti sui social ora sono d’obbligo, e i sorrisi quando arrivano le risposte e i “mi piace”. Storie.

Da raccontare, immaginare, inventare, sognare. Da rubare.

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Un volto, una storia

Vi capita mai di osservare il volto delle persone? Non quando vi ricordano qualcuno e allora vi soffermate sulla somiglianza, non quando sono particolarmente belli e allora catturano la vostra attenzione. No, non così. Intendo osservarne l’espressione cupa, serena, divertita, afflitta; i lineamenti, contratti o distesi; lo sguardo, vacuo o attento o contrariato; la freddezza o – al contrario – il calore che emana.

Può davvero essere anonimo, un viso, se si pensa a tutto questo? E cosa si cela dietro ognuna di queste caratteristiche, o di un’infinità d’altre che non ho citato?

Mi piace, per esempio, andare in treno. Ci sono degli orari strettamente collegati all’aspetto di volti sconosciuti, la cui espressione traduce ciò che l’orologio segnala. Al mattino, è facile trovare occhiaie da film della notte durato un po’ troppo, da chat sulle quali trascorrere le ore, da figli piccoli insonni e lamentosi, o magari da vicino di casa particolarmente rumoroso. Le occhiaie degli amanti, invece, sono differenti: accarezzano una pelle distesa e occhi luminosi, un’espressione assorta e lontanissima da quelle rotaie, una piega delle labbra quasi impercettibile ma che denota il piacere di esistere.

All’ora di pranzo non incontri gli sguardi: sono diretti a libri e giornali, eReader o telefoni cellulari. Gli sms si sprecano, qualcuno dormicchia con la testa che casca di lato.

Subito dopo eccoli, i ragazzi. Spesso preferiscono stare in piedi, non sentono il peso dello zaino e chiassosi si parlano addosso, ondeggiando a ogni fermata del treno.

C’è poi un orario in cui si somigliano davvero tutti: giovani e meno giovani, uomini e donne, eccentrici turisti o sobri impiegati. È quello del “ritorno”, del tardo pomeriggio, del bisogno del divano di casa, di levare le scarpe o allentare la cravatta.

Tutti quei visi divengono sciame accomunato da necessità simili a miraggi, con il tempo che pare fermarsi, sul treno.

Mi piace guardarli. Hanno tutti una storia e chi ha una storia non è mai anonimo, non è mai insignificante.

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