Susanna Trossero

scrittrice

Ho ricevuto una lettera da Kafka

kafka

Vi capita mai di vagare indolenti fra i titoli della vostra libreria, aprendo qua e là dei libri a caso, scoprendo vecchi segnalibri che non ricordavate di possedere, biglietti d’auguri o liste della spesa dimenticate?

Ieri pioveva a dirotto, qui a Roma: situazione ideale per “cercare” qualcosa, per lasciarsi stupire da storie e racconti che neppure sapevamo di avere. In questa morbida e pacata escursione, io ho incontrato Franz Kafka, del quale ho diversi libri compreso un interessante saggio che ne illustra la psicologia, ma ciò che mi ha attratta è stato un piccolo tascabile della Newton Compton Editori: l’edizione integrale di “Lettera al padre”. Rileggerlo, dopo anni, è stato quasi come leggerlo per la prima volta, respirando all’interno di un carcere personale che non mi appartiene ma che è facile comprendere grazie all’abilità dell’autore. E così l’ho visto, mite, discreto e timido, afflitto dal grigiore di una vita tormentata dalla sua stessa vena creativa e dalla vocazione all’introspezione; l’ho visto, scrivere una lettera che mai arriverà a destinazione così come forse a tutti noi è accaduto. Uno sfogo, una necessità, la speranza di liberarsi da un nodo scorsoio, di affrancarsi da un padre rude, che si è fatto da solo e non ha alcun dubbio sulla sua stessa grandezza… Un uomo così pieno di sé da illudersi d’essere il custode di verità assolute, mentre in realtà è solo un arrogante ottuso e pieno di pregiudizi che considera regole.

Quanto, una figura così imponente nei suoi limiti, può trasformare un mondo personale in un luogo senza luce? Quanto può umiliare o dar vita ad angosce esistenziali?

Una lettera simbolica, espellere per rinascere: si è liberato, Franz Kafka, scrivendo una lettera che mai avrebbe raggiunto il destinatario? Questo oggetto fisico, strumento di comunicazione ma anche fonte di risposte soprattutto per chi scrive, ha ossessionato e ammaliato altri grandi della letteratura: la lettera-confessione di Oscar Wilde in De Profundis, per esempio, o le ventimila lettere di Voltaire, i diciannove volumi che raccolgono quelle di Proust, quelle di Moravia, Pasolini, Henry Miller e molto più indietro nel tempo quelle di Epicuro, Platone, Cicerone, Orazio…

Mail, sms, chat, nuovi strumenti di comunicazione… Qualche rimpianto?

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Quando le parole non bastano

Quando le parole non bastano

Parliamo parliamo parliamo, ma ogni giorno inventiamo nuove sfumature per non farci capire o di nuove ne incontriamo che ci fanno pensare “costui parla un’altra lingua…” Per Voltaire l’incomprensione dà luogo alla filosofia, poiché sosteneva che è di questo che si tratta quando qualcuno non comprende le parole del suo interlocutore e lo stesso non sa cosa sta dicendo. Buffa interpretazione per noi, punto di vista più che serio per lui (che avesse ragione?).

Il potere della parola è di gran lunga inferiore al potere della comprensione, ma l’equo scambio di tale merce pare spesso perduto o dimenticato, annegato nell’egocentrismo che tutti noi – ammettiamolo – possediamo. Però cerchiamo di tradurre altri linguaggi, e ce ne vantiamo perché ogni scoperta significa intelligenza e apertura; così, mentre le coppie si dividono per mancanza di dialogo, genitori e figli non trovano punti d’incontro attraverso le parole, interi paesi si preparano all’odio perché incapaci di comunicare senza prevaricazioni, ci sono allevatori che sostengono di riuscire a capire perfettamente cosa dicono le galline. Allo scopo, negli Stati Uniti si è creato un software in grado di tradurre i versi delle galline in un linguaggio comprensibile per l’uomo. Senza dubbio interessante, tuttavia propenderei per un marchingegno in grado di avvicinare gli uomini e aiutarli a comprendersi l’un l’altro, cosa che al momento – e in maniera del tutto naturale – appare come un’ardua impresa.

Secondo un proverbio cinese, Dio ci ha dato due orecchie ed una sola bocca per ascoltare almeno il doppio di ciò che diciamo, e la stessa cosa affermano i danesi e Talete, mentre Pasolini sosteneva che la morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter più essere compresi.

Interessante l’aforisma di Elbert Hubbard: Chi non comprende il tuo silenzio probabilmente non capirà nemmeno le tue parole.

Già, il silenzio. Ma questa è un’altra storia…

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Benedetta sia, l’estate

Toscana, spiaggia che allo sguardo appare ancora selvaggia, con quei tronchi invecchiati sotto il sole inclemente e strattonati dal vento; giunchi, conchiglie, profumo di pini, suono melodioso di risacca. In questo scenario che sfiora  la perfezione grazie all’assenza di chiassosa e vacanziera umanità, leggo “piccoli” libri: Sarrasine, di Balzac, e L’inganno di Voltaire. Racconti d’autore in cui si dipanano due storie differenti, scritte con stile che non ci appartiene, dal profumo d’antico e impregnati di irresistibile malizia…

“Quell’età d’oro dell’amore, durante la quale gioiamo del nostro proprio sentimento e in cui ci sentiamo felici quasi per opera di noi stessi, e gli avvenimenti ci sorprendono quando siamo ancora sotto il fascino di quella primaverile allucinazione, ingenua quanto voluttuosa…” (Balzac)

Una visita in soffitta, cassapanca che si apre rivelando segreti ricami concepiti e ideati dalla fantasia di grandi autori capaci di raccontare commedie umane senza tempo, che ancora oggi si ripetono sorridendo divertiti della nostra “modernità di costumi”…

 “Il cervello, che è creduto essere la sede dell’intelletto, fu attaccato violentemente come il cuore, che si dice sia la sede delle passioni. Quale meccanica incomprensibile ha sottomesso gli organi al sentimento e al pensiero? Come mai una sola idea dolorosa disturba la circolazione del sangue e come mai il sangue, a sua volta, porta delle irregolarità nell’intelletto umano?” (Voltaire)

Canto di cicale, tramonto sull’acqua appena increspata, un buon libro. Anzi, due.

Benedetta sia, l’estate.

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