Susanna Trossero

scrittrice

Gli abbracci perduti

Abbraccio

Circa un mese fa sono stata a un funerale… Non un funerale “normale” ma uno celebrato in tempi di Corona Virus.

I funerali sono sempre come nuvole cariche di pioggia che pesano sul cuore, un preludio di lacrime che verranno ancor più copiose “dopo”, quando si tornerà a casa e si farà i conti con assenza e mutilazione. Dunque questo no, non cambia.

Ma ciò che mi ha colpito è stata la distanza inevitabile, i volti coperti, gli abbracci mancati. Eravamo all’aperto, consentite al massimo 15 persone, il sole ci stava addosso e niente leniva, alimentando la stranezza della situazione. Le lacrime assorbite dalle mascherine, gli sguardi erano tutto ciò che di libero poteva restare, e non importa se eravamo là a supportare la perdita di una persona cara, importa quel senso di vuoto che ha piegato le spalle di chi la persona cara non l’ha neppure potuta accompagnare al cimitero…

Mi ha colpito un silenzio differente, una compostezza timorosa, la distanza obbligata, l’impossibilità di una carezza o almeno di una parola sussurrata, che mai sarebbe giunta a destinazione perchè attutita dalla mascherina.

Il dopo, in tempi di corona virus, è stato avvolto da telefonate, parole su messenger, ma ancora nessun abbraccio.

E ho capito, una volta di più, che l’assenza di contatto fisico ci mutila, perchè in un abbraccio sincero si può trovare un luogo in cui sentirsi bene e fondersi. Aria di casa, di famiglia, o di comprensione e solidarietà. Conforto, accoglienza, parole non dette, e ancora la volontà di dimenticare quelle sbagliate.

In un abbraccio si può ricominciare o dirsi addio, piangere o sorridere ad occhi chiusi. Per mesi abbiamo perduto quelli degli amici, dei figli lontani o dei genitori, di fratelli e sorelle, di amori e di persone che negli abbracci ci hanno fatto sempre star bene.

É una stanza, l’abbraccio, la cui porta è spalancata ma tu vuoi restar là perchè il tempo si ferma, e lascia fuori tutto ciò che in quell’attimo non serve.

Il Covid19, ci ha privati di tanti che si sono trasformati in un numero assurdo, in dati da telegiornale, mutilandoci nell’intimo. Ma anche di quotidianità, lavoro, certezze, abitudini, normalità.

E ci ha privati di qualcosa che forse per una vita intera abbiamo dato per scontato: gli abbracci in cui perdersi o ritrovarsi. O – per dirla con le parole di Leso Tweet – “quelli che conosci, quelli dove sai già da che lato appoggiare la testa”.

Foto di StockSnap da Pixabay

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Ma non è un film

La gente fa paura, perché come sempre nelle emergenze, l'emergenza la crea. La alimenta.

I primi giorni pensi che davvero tutto sia troppo lontano: nella realtà non accade ciò che abili sceneggiatori creano per i film “catastrofici”, certo che no. Situazioni apocalittiche, magari con gli zombie, è più figo, l’importante è che lo spettatore stia incollato in sala. E i virus letali? Ne abbiamo visti a bizzeffe, di quei film. E così, i primi giorni, pensi che tutto stia là, dentro quella scatola bugiarda chiamata TV.

Qualche tempo dopo però l’aria è satura di un’idea che si fa strada nello stomaco, contraendolo di inquietudine: sta arrivando. E negarlo può essere pericoloso. Ma siamo arroganti, sbruffoni, tutti coattelli e ci uniamo nella negazione: apericena per sconfiggere il nemico inesistente, riunioni di amici e conoscenti per sentirsi alternativi (c’è chi nei social ha fotografato i propri gruppi al ristorante definendoli meravigliosamente rivoluzionari). Madddai, nel 2020 che vuoi che ci succeda? Fra un po’ saremo in grado di bere un caffè con gli alieni e ci ammazza un virus? Si ridacchia. Si esorcizza.

Ma se accendi la tv quella non parla d’altro. Il Corona Virus. Il Covid 19. Magari non è proprio soltanto bugiarda, ti dici. E se il giorno prima stavi sull’autobus o a Piazza del Popolo, con le mani unte di focaccia salata condivisa in parte con un gabbiano sfacciato, il giorno dopo hai un brivido lungo la schiena: non avresti dovuto? Sei a rischio?

Poi chiudono le scuole, i teatri, i cinema, i musei, pub e birrerie, circoli sportivi e culturali, i numeri salgono: quelli dei contagiati, degli intubati in terapia intensiva, dei contagiati asintomatici, gli untori. E… i morti. Sì, i morti. Cominciano ad essere tanti. E tu smetti di uscire, di stare in mezzo alla gente ancor prima del decreto che lo impone. La gente fa paura, perché come sempre nelle emergenze, l’emergenza la crea. La alimenta.

E quando il decreto impone di stare a casa, io l’idiozia della gente la vivo con rabbia: gli assembramenti sono vietati? Non importa. Non ci si deve abbracciare o baciare? Ma dai! E resistono, i rivoluzionari, incuranti del danno che provocheranno a se stessi e agli altri. O alla sanità stessa, che miracoli non può fare.

Il corona virus esiste. Non mi importa com’è successo, da dove è arrivato, non mi importa delle teorie complottistiche o dei supereroi che ancora lo sfidano baldanzosi con un’ignoranza senza eguali. No, non mi importa. Non ora. Esiste e può essere letale. Non è un film.

Impariamo la differenza tra paranoia e buon senso. Tra rispetto ed egocentrismo. Nel 2020 questo ancora non lo abbiamo fatto.

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