Susanna Trossero

scrittrice

La festa è finita

Autunno

In questo clima di festività un poco fasullo, con i negozianti in crisi perché la clientela in crisi lo è ancor di più, i cenoni che non si evitano ma i regali che si ridimensionano, e gli spumanti dell’Eurospin in offerta speciale che vanno a ruba, ho incontrato diverse persone che mi hanno parlato di feste di piazza, con le luci che si spengono, in una malinconica metafora che mi è rimasta dentro. In questo dicembre non hanno decantato nulla che abbia a che fare con alberi di Natale illuminati, no.

Feste di piazza.

Qualcosa è cambiato, forse troppo. E male.

Per molti, troppi, è finita la festa. Non c’è altro modo per esprimere quella strana sensazione, quando si presenta. Mi hanno raccontato della musica che cessa, di tutta quella gente vista di spalle, che se ne va altrove, magari un po’ stanca e con un unico desiderio: dormire.

È finita la festa. La ghiaia sotto i piedi, il palco che viene smontato, il rumore di ferro, di sedie ripiegate, di auto che ripartono. Il vociare, da allegro diviene sommesso, l’aria si è fatta umida, le stelle sono nascoste, forse pioverà. Piove sempre, quando la festa finisce, eppure l’acqua ci coglie impreparati, senza un ombrello.

C’è un tempo, sempre troppo lontano e che non dura mai a lungo, in cui quando una festa finisce si aspetta semplicemente quella successiva. Ma ve n’è uno che dura molto di più, e in quello lo sai, oh se lo sai, che tutto è cambiato e che – la festa – è finita davvero.

So di essere andata controcorrente, in questo mio post pre-natalizio, ma volevo dar voce anche a chi sta rivivendo il calcio alla lattina vuota, mentre torna a casa e i fuochi d’artificio sono finiti, lasciando nell’aria quel tipico odore di candela appena spenta.

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Vecchi ragazzi in festa

 

I colli bolognesi, una villa immersa nel verde e in basso la vecchia città che sonnecchia respirando il maggio emiliano. Classe 1960/66, una tavola imbandita di salumi regionali, pane casereccio, lasagne, buon vino, le crescentine (o gnocco fritto, se preferite).

Cimeli di famiglia impreziositi dall’età sono sparsi in ogni dove, ritratti ingialliti dal tempo, una libreria che lascia senza fiato! La classe ‘60/66 è là, al centro della grande stanza, che si dimena al suono della disco music anni ’80: avvocati, musicisti, scrittori, un’attrice, un filosofo, professori universitari, storici, un ingegnere cubano che ha scelto la libertà italiana, una poetessa, delle professoresse. Ragazzi a una festa, alleggeriti da adulti pesi, che bigiano il quotidiano e mangiano in piedi, ridono, si raccontano storie e riconoscono quel pezzo di Donna Summer e, ti ricordi? Quel Disco Inferno di quella volta lì.

Nessuna traccia di nostalgia o rimpianto, solo un divertirsi come allora e come allora  i gruppi che si formano e le domande di rito: “Ma tu non sei di Bologna, vero?” e via di seguito. Ma ce n’è una che, allora, non veniva mai formulata ed è “Tu cosa fai nella vita?”

C’è un tempo in cui tutti fanno le stesse cose, poi quel tempo finisce e comincia una strada differente per ognuno di noi, la strada delle scelte, del costruire o dell’affondare.

E tu cosa fai adesso?

Vado ancora a  una festa, ballo al centro di una stanza piena di fumo, il bicchiere in mano, è il compleanno di Andrea e stasera siamo tutti amici.

Classe 1960, 61, 62, 63, 64, 65, 66…

E, più tardi, si migrerà verso la mansarda della villa, con il sax e il piano che indurranno al silenzio, la bellissima voce della cantante del Kansas piovuta là alle due del mattino, le luci soffuse, la notte incantata che spia dai vetri chiusi. E tutti torneranno ad essere adulti, o vecchi ragazzi ancora capaci di sognare, di gustare l’intimità del “gruppo”, con lo sguardo perduto in un altrove che ai veri ragazzi è sconosciuto.

Classe 1960/66. Non siamo venuti poi così male.

Poche ore dopo, il terremoto. Ma questa è un’altra storia.

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