Susanna Trossero

scrittrice

Perdersi per poi ritrovarsi

Perdersi. Perdersi in qualcosa o in qualcuno, nel nulla o nel troppo.

Siamo destinati a perderci, non è vero? Anche chi muore di noia e in niente si butta a capofitto, si sta perdendo: nell’apatia. Quindi non possiamo evitarlo, a quanto pare.

Personalmente, mi perdo spesso nella lettura, dimenticando tutto il resto. Mi perdo nel pensiero che vaga a briglia sciolta durante la notte, quando il sonno tarda ad arrivare. Mi sono persa in progetti mai portati a termine, in situazioni stupide, in passioni meravigliose come la scrittura. Ogni libro scritto, ogni racconto, è stato un perdersi. Per poco o per tanto tempo,

Mi sono persa dentro un dolore, anche questo capita. Ogni giorno diventa uguale, l’isolamento rende tutti estranei mentre sei tu l’estranea perché persa in un altrove soltanto tuo.

Mi sono persa nell’allegria. Succede, soprattutto in gioventù. Perché si può essere allegri anche con la maturità, certo che sì, ma quell’allegria che ti ingoia totalmente necessita di spensieratezza, incoscienza, leggerezza. Tutte meraviglie che in gioventù abbondano, di solito.

Mi sono persa in un’idea. Idea che diventa ossessione e non lascia spazio a niente altro. O mi sono persa dentro un’emozione.

Mi sono persa dentro una mancanza, divenuta subito mutilazione.

Spesso mi perdo davanti al mare. Il mare che lenisce, avvolge, trasporta. Che incanta. Che spinge a naufragare o invita a non lasciare la riva.

Ci si perde sempre in qualcosa. In qualcosa o in qualcuno. E qualcosa si perde. Ma riflettendoci su, vorrei dire a che te leggi, che se ti senti annegare perché fai parte di coloro che vivono una perdita, ricorda che solo chi non ha avuto niente, nulla ha da perdere.

Pensa a questo: se soffri perché hai perduto qualcosa, sei tra i fortunati che possono vantare un ricordo importante, comunque sia andata a finire. E, credimi, è l’unica maniera per non perdere due volte.

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Lasciarsi per amore

Proseguono le testimonianze sul mal d’amore: sentite, dolorose, sbiadite o ancora vibranti. Ad ognuna regalo un tramonto che in sé contiene sempre la bellezza ma anche l’ineluttabilità di una fine… Se volete inviarmi le vostre brevi storie, anche in forma anonima ma precisando che mi autorizzate a pubblicarle su questo blog, fatelo all’indirizzo maldamore_2021@virgilio.it.

Oggi è Gabriella a raccontare e raccontarsi:

E poi c’è chi ti lascia perché ti ama.

Difficile da accettare mentre accade, perché in fondo è pura contraddizione no? Ma a distanza di anni, con il sopraggiungere della maturità, ci si arriva. Non di colpo, non tutt’insieme: passo passo, ingoiando il magone, aggiungendo tasselli, imparando a ragionare con la testa di un altro – soprattutto se quell’altro è stato parte di te.

Se non mi avesse lasciata avrei sofferto più a lungo, ora lo so e lui già lo sapeva prima di me quando smise di chiamarmi, di darmi il buongiorno, di sognare con me il prossimo appuntamento. Ne presi atto alla stazione, mentre aspettavo un treno e guardavo il telefono muto. Il cielo era sbiadito, l’aria fredda e umida, la gente andava al lavoro, aprivano i negozi, ma a quell’ora del mattino – fateci caso – nessuno è mai felice.

Mi sono sentita sola in una realtà di gente in movimento, sola in un modo dilaniante.

E mentre soffrivo pensavo “vigliacco”, e mentre piangevo dicevo “ipocrita”, ma tanto non ci credevo che lo fosse, né l’una né l’altra cosa. Sapevo anche io che eravamo due persone avvicinatesi troppo nel momento sbagliato, come dita sulla fiamma ci saremmo bruciate entrambe, e non ci sarebbe stato per noi un tempo giusto.

I perché e i percome non servono a molto, non voglio giustificare niente, tantomeno lui. Semplicemente io so che è così ma ci ho messo una vita ad accettarlo, credetemi, e allora non ho più voglia di spiegare nel dettaglio.

Vorrei solo sapeste che a volte si viene davvero lasciati per amore, per renderci liberi da una storia nata male, che male potrebbe arrecare a noi ma anche ad altri.

E questo interrompere un viaggio a due quando ancora la meta è lontana e tutto appare bello, fa sì male ma congela l’attimo come fotografia: il bello resterà per sempre vivo, il ricordo intatto. Ecco dove tu, carissimo, hai sbagliato: libera davvero dalla nostra storia nata male, non lo sarò mai del tutto perché hai fatto sì che finisse quando era ancora troppo emozionante viverla.

Gabriella

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Cosa siamo diventati, noi “adulti”?

23 aprile scorso, giornata mondiale del libro: utilizzarla per promuovere la lettura – io che leggo tantissimo e che amo scrivere – mi è parsa una buona idea. Mattina di sole, Roma mi sorride finalmente, impossibile stare a casa, no? Così, armata delle migliori intenzioni, decido di portare in giro qualche copia dei miei libri e di regalarne ai passanti con un sorriso e un “felice giornata del libro”. Un gesto gentile, simbolico, in una ricorrenza come questa.

Ed ecco che il tutto si trasforma in una indagine sociologica che mi ha lasciata a dir poco perplessa, e che vorrei condividere con voi.

 All’uscita di una metropolitana frequentatissima, io cammino per recarmi a un appuntamento e nel frattempo comincio la distribuzione a caso, tuttavia prediligendo chi – in mano – un libro lo ha già, perlomeno per avere la certezza di scegliere amanti della lettura.

Ebbene, i giovanissimi esultano felici, ringraziano e si aprono in sorrisi cordiali, facendo gruppo per sfogliare subito l’inaspettato regalo.

Gli “adulti”… Che è successo, agli adulti? Sì, noi adulti, e metto anche me nel mucchio perché non sono esattamente una ragazzina: che cosa siamo diventati?

Non appena porgevo loro il libro e sorridendo dicevo: “Un piccolo regalo per lei, felice giornata del libro”, istintivamente tutti  indietreggiavano di un passo, quasi a volersi difendere, e poi con espressione torva in volto dicevano cose come “No guardi, non è proprio il momento” oppure “No, non posso, mi dispiace” e ancora “No, lasci stare, non ho tempo” e poi il consueto “No, non mi serve niente”. Se notate, tutti esordivano con un no. No a un pensiero gentile, no a un regalo, no ad un gesto carino e simbolico. Io dicevo “non importa” e proseguivo rasserenandoli così sulle mie non malvagie intenzioni.

Tuttavia, a quel punto, ho continuato a fermare persone mature non tanto per masochismo quanto per comprendere se si trattava di casi isolati, o se mi trovavo davanti al comportamento abituale di coloro che gli “anta” li hanno superati.

Provate un po’ a indovinare? Nessuno ha accettato l’omaggio.

È questo dunque, diventar grandi? È diffidare sempre e comunque? È non accettare “caramelle” dagli sconosciuti? È non credere più che qualcuno possa compiere un gesto gentile senza chiedere qualcosa in cambio? È perdere totalmente la capacità di godere di una piccola cosa?

Funziona così solo in caotiche e aggressive città, oppure ovunque?

Quante cose vanno perdute, rispetto a quelle guadagnate, crescendo?

Con rammarico per tutti coloro che non sanno più dire grazie, vi lascio alle mie domande sperando che qualcuno abbia voglia di dire la sua. Un abbraccio per niente adulto,

Vostra Susanna

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