Susanna Trossero

scrittrice

Ci siamo dentro fino al collo

on 19 Novembre 2023

Facile, da “semplici” spettatori, lo so, non crediate che non lo sappia. Così come so bene che in questi casi tutti abbiamo qualcosa da dire o la verità in tasca o i consigli perfetti se non addirittura i giudizi. So anche questo.

Ma voglio esternare alcune riflessioni. Sento che voglio e devo, magari solo per me stessa, non lo so ma la spinta emotiva a farlo c’è ed è troppo forte per metterla a tacere.

Ho davanti il viso di Giulia Cecchettin, mi perseguita quel visetto ancora da ragazzina e nel suo ci sono tutte le altre di qualunque età: sembra siano 105 da gennaio, o 103, non so bene. Una piaga sociale, un problema di tutti e non dei familiari. Di tutti.

Ero molto giovane quando ho saputo dello stupro di una mia amica da parte del suo ex. Lo ero quando un ragazzo che non mi interessava mi faceva la posta tutto galante e lo ero ancora quando ho visto tempo dopo la sua foto sul giornale: aveva ucciso un’altra ragazza con la quale faceva il carino senza risultati. Ed ero molto giovane quando una mia amica mi ha confessato di aver fatto un anno di ospedale da bambina per le torture inflittegli dall’anziano vicino di casa. Potrei continuare. Ciò che intendo dire è che i mostri ci sono sempre stati e tutte noi in qualche modo lo abbiamo sempre saputo. Ma… adesso è davvero una piaga sociale. Se è vero che per quanto riguarda gli stupri prima venivano denunciati meno, è anche vero che questo non vale per i femminicidi: quelli non li puoi nascondere, non a lungo, e i dati sono realmente in crescita, non lo dico io. Si continua a parlare di patriarcato ma io voglio andare oltre. Quel “no” che non viene accettato, che determina l’ossessione, la voglia di farla pagare, la convinzione di poterlo fare senza il timore delle conseguenze, da dove viene?

Appartengo alla classe 1961: riconoscimento delle gerarchie (scuola, famiglia lavoro) e dell’autorità, timore delle conseguenze e senso di vergogna quando ci si comportava in modo non appropriato. Rispetto per gli adulti, prezzo da pagare per i comportamenti non consoni alle regole della società o a quelle familiari. Forse rigidità, non lo metto in dubbio. E non mi sogno di dire che tutto ciò fosse perfetto o privo di errori, certo che no. Ma il no, su ogni fronte, era un aspetto della vita addirittura quotidiano. I bambini ne ricevevano di continuo senza subire traumi o aver bisogno di psicologi, gli adolescenti ancor di più e non ne ho conosciuto nessuno che dovesse per questo ricorrere agli psicofarmaci. Dalle superiori in poi le storie d’amore cominciavano e finivano: ci si sfogava tra gli amici, si soffriva e si gioiva, si odiava e si amava ma ci si prendeva cura delle proprie ferite soli e in compagnia. C’erano i più deboli, certo, o quelli che ci mettevano più tempo. Ma la cura era la vita stessa e nella maggior parte dei casi aveva la meglio sul buio.

La scuola forgiava il carattere con lo stesso meccanismo della famiglia: ti premio con un buon voto, ti metto un bel 3 se non hai studiato. Insegnava pesi e misure, conseguenze, in bene e in male. Ho letto che oggi invece il voto è in discussione perché genera ansia, applica etichette negative, insinua competizione diseducativa, e chi ne riceve uno basso ne ricava bassa autostima sentendosi inferiore. Quindi ne deduco che la valutazione dell’impegno e il giudizio del livello di studio raggiunto può essere una esperienza troppo intensa per i nostri fragili ragazzi. Se siete della mia generazione ricorderete di certo quali demolizioni psicologiche rappresentava per noi giovani esseri umani in costruzione, e vi prego di cogliere l’ironia.

Al tempo, ricordo anche che se un insegnante chiamava un genitore a colloquio erano cavoli amari per l’alunno e l’insegnante non veniva denunciato dal suddetto genitore ma addirittura ringraziato.

La letteratura poi, i disagi degli scrittori, le frasi da sottolineare, i libri da leggere, le poesie da tradurre e i temi da sviscerare facevano un gran lavoro: imparare a pensare, a esprimere un giudizio, a ragionare su azioni e sentimenti, a notare la diversità tra le persone stabilendo cosa ci apparteneva e cosa no, i perché e i per come. Risorsa per la crescita, che va ben oltre quell’introduzione massiccia di test invalsi che invadono scuole elementari, medie e superiori. Automatismi e appiattimento. Non sto divagando, tutto è il frutto di tutto, in particolar modo se alla base si mina l’insegnare a ragionare. E non voglio toccare l’uso e abuso della rete fin dall’infanzia, dove tutto è possibile e il virtuale elimina le conseguenze distorcendo la realtà: causa effetto, azione reazione conseguenza.

E per quanto riguardava la situazione economica, vengo da una famiglia semplice, non avevamo una lira da spendere in sciocchezze e non ne possedevano i miei amici, di sciocchezze. Ogni bene materiale era una gran conquista e dava grandi soddisfazioni perché difficile da ottenere. Però non ci sentivamo né poveri né insoddisfatti.

E allora, se permettete, qualche domanda me la pongo: da qualche parte nel 2023 c’è qualcosa di sbagliato? Chi e cosa oggi ci insegna ad esercitare la facoltà intellettiva, a sviluppare fattori cognitivi e motivazionali che stanno alla base dell’empatia, a entrare in connessione con l’altro? Il no ci è ad oggi sconosciuto ed è visto come un potente nemico che distrugge chi se lo sente dire fin dall’infanzia, lo rende isterico (i bambini), arrogante (gli adolescenti), aggressivo (i ragazzi e gli uomini). Eppure, è dal no che bisognerebbe partire, ricominciando a considerarlo come forma di educazione alla vita fin dalla prima infanzia e non come privazione crudelmente inferta.

Ma voglio osare di più a proposito dei femminicidi: dove sono gli amici dei carnefici? Dove la famiglia, che oltre a fungere da supporto e cura, protezione e sicurezza, dovrebbe non aver paura di compromettere la relazione con i figli e smettere di assecondarli? Davvero nessuno comprende quanta differenza ci sia tra dolore e ossessione? E ancora: educare le donne a proteggersi è davvero la via giusta o forse si dovrebbero educare gli uomini e monitorare le loro debolezze quando cominciano a palesarsi in modo evidente? Oggi ho letto che il mostro Filippo all’arresto si è mostrato stanco e arrendevole, molto provato. E questo dovrebbe interessarci? Ho letto che bisogna educare le donne a non abbassare la guardia, a non accettare prevaricazioni anche minime perché spesso rappresentano l’inizio di una escalation. E ho letto di fragilità del mostro Filippo e degli altri come lui. Ma dove sta la società tutta?

Se sei gentile con chi lasci perché ti dispiace aver provocato il dolore del distacco e vuoi ammorbidirlo, sbagli perché lo illudi e allora quello domani ti ammazza. Se chiudi in modo netto per evitare strascichi sbagli perché sei crudele e allora quello domani ti ammazza. Se ti nascondi e lo temi ti comporti da preda e arriva il predatore quasi lo avessi creato tu. Se al contrario sei sicura di te e i tuoi no sono netti risvegli il predatore e si sente sfidato. Se ti chiudi in casa ti fa la posta perché prima o poi ti becca, è una questione di principio che tu inneschi. Se al contrario hai vita sociale, esci, vedi gente lo stai stuzzicando perché pensa che te la spassi. Se rifiuti un incontro sei una stronza, se accetti un incontro sei una stupida che sottovaluta la pericolosità. E allora, se a conti fatti non esiste una formula che metta al sicuro le donne, forse sarebbe ora di capire che bisogna partire dagli uomini o no? Come? Io non sono nessuno, non ho soluzioni, sto solo riflettendo senza alcuna verità in tasca. Il Come lo chiedo alle istituzioni, alla scuola, alle associazioni, alle famiglie. E perché no, anche a tutte le donne che stanno dietro a questi uomini: madri, sorelle, amiche, conoscenti, vicine di casa, confidenti, colleghe di lavoro o compagne di banco. Davvero nessuna di tutte loro nota quel lento e inesorabile scivolare verso l’ossessione e si muove concretamente per esternarlo? Non succede in un giorno qualunque di novembre, dopo un salto al centro commerciale e una cena, né dopo un litigio in un parcheggio deserto. Succede prima, molto prima. Smettiamo di ignorarlo, smettiamo di cascare tutti dalle nuvole.

Questo è il post più lungo che io abbia mai scritto sul mio blog. Una esternazione, l’ho detto, di chi ascolta brutture da un punto sicuro di osservazione. Ma è davvero così sicuro? Davvero è solo osservazione? O ci siamo tutti dentro fino al collo?


2 Responses to “Ci siamo dentro fino al collo”

  1. Damiano ha detto:

    Hai detto tanto, forse tutto, ed è difficile aggiungere altro ma ci provo.
    Andando controcorrente continuo a pensare che uno dei mali che ha corroso lentamente ma inesorabilmente i nostri equilibri, sia il maledetto giustificazionismo da “folla”.
    Da una vita mi sento dire che pensare a “me stesso” sarebbe sbagliato, egoistico, velleitario.
    No, mi si dice, da soli non si va da nessuna parte! Bisogna pensare e agire insieme! O ci si salva tutti o nessuno!
    Sembra che un obiettivo si possa raggiungere solo ed esclusivamente se intruppati in un esercito, se si è una folla. Risultato?
    Visto che coinvolgere o convincere tutti della giustezza di un comportamento risulta difficile e faticoso allora sapete che c’è? Chissenefrega, basta, desisto, mi adeguo e vada come vada.
    E’ difficile essere pecora nera o mosca bianca. Ci vuole carattere, spalle larghe e menti forti.
    Ci voglio vent’anni a formare un laureato, pochi secondi a diventare genitori.
    Ma se è vero che non siamo tutti figli di laureati e altrettanto vero che, di norma, siamo tutti figli di genitori da cui prendere esempio per divenire genitori a nostra volta.
    Se, ad esempio, a una figlia di sei anni fai capire che lei lo zainetto della nota marca non lo avrà (perché lo portano tutte le pecore del gregge) ma potrà averne uno anche più costoso di una marca non pubblicizzata, sapete che succede?
    Che impara a ragionare e comportarsi in autonomia.
    Succede che le piacerà la compagnia ma non avrà timore di prendere decisioni che la portino a stare sola. Non ne soffrirà, anzi, la fortificherà.
    E oggi che è mamma cresce figli che non passano ore con gli occhi su uno schermo bensì su un libro e io mi ritrovo una nipotina di cinque anni che, impaziente, mi chiede sconsolata: “Ma perché i bimbi imparano prima a parlare invece che a leggere? Non si poteva fare il contrario?”
    E come regalo di compleanno ha voluto una sveglia perché (l’anno prossimo) non “posso correre il rischio che non mi sveglio e faccio tardi a scuola”.
    Tutta una vita a parlare poco, con le figlie, ma a dare esempi e senza cercare a tutti costi di farlo “insieme”. Insieme a chi? Anche la più grande delle folli è fatta di singoli.
    Non è la folla che prende decisioni. Ogni singolo decide per se stesso e dopo, semmai, si fortifica insieme ad altri, alla folla.
    Francisco Coloane ha scritto un pensiero che condivido: “Non sempre si deve seguire il sentiero tracciato. A volte bisogna inoltrarsi in spazi sconosciuti e lasciare un segno per chi verrà”.
    Solo che negli spazi sconosciuti, spesso, compagni di viaggio se ne trovano pochi e questo spaventa.
    Come si può pensare di salvare il mondo se non si è capaci di salvare se stessi?
    Che ognuno salvi se stesso e insegni a chi è prossimo e il mondo sarà salvo.

    • Susanna ha detto:

      Grazie, grazie davvero Damiano: che sia un uomo a commentare per primo e soprattutto a usare certe parole è per me molto importante. Spero tanto non resterai l’unico

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