
Il tempo scorre, si adagia su di noi spalmando albe e tramonti o ci cammina sopra come un treno in corsa senza nessuno che lo guida o aziona il freno.
Lui, il tempo, procede sempre uguale a se stesso ma noi lo percepiamo lento o veloce a seconda di cosa stiamo vivendo o di come. Con chi. Dove.
Un mese intero è passato ad oggi: dal 29 ottobre non sono più figlia ma soltanto Susanna e come ha detto un amico caro, “si prova una libertà destabilizzante e dolorosa, a non esser più figli di qualcuno”. Ed è vero, anche se non trovo le parole per affondare in questa verità e sviscerarla per comprenderla io stessa.
Riordinando i pensieri, mi sono resa conto di non aver richiamato un’amica che appena saputo della mia mutilazione mi ha cercata, ed è stato calore anche se in quel momento non ho risposto. Non potevo, un nodo in gola mi avrebbe impedito di parlare. E ancora mi strangola se decido di comporre il suo numero… Spero mi stia leggendo, adesso, amica mia d’infanzia e presenza discreta nella mia vita.
Ho ripreso in mano ciò che mi sta a cuore e che mi porta altrove a ragionare sulla bellezza delle parole: il corso breve on line sulla trama in narrativa, la correzione di una raccolta di racconti di qualcuno che ha riposto in me tanta fiducia, l’organizzazione di nuove presentazioni del mio “Il male d’amore”, che in realtà soltanto mio non è ma anche e soprattutto dei tanti testimoni che ne fanno parte. E ho sul comodino due libri, uno da rileggere – La nausea di Sartre – e l’altro che mi aspetta da tanto e mi intriga ma per qualche bizzarra ragione non ho letto mai – Il diavolo, di Tolstoj.
Parole sulla carta. Parole che fungono da zattera, da terapia, forse da fuga. Ma sono così belle, le parole scritte, da far trascurare quelle non dette. Il tempo va, e c’è un tempo per tutto. Questo per me è il tempo del silenzio interiore. Qualcuno suggerisce di chiedere aiuto e supporto, altri fanno sapere quanto fanno bene le gocce di non ricordo cosa. Io ho perso molte persone a me care, anche piuttosto giovani. le ho accompagnate fino a che i loro occhi non mi vedevano più. E ho capito, da molto tempo, che il dolore non può essere taciuto né rimandato né evitato ma vissuto, affrontato, lasciato libero di invaderci perché è naturale provarlo, dimostra la nostra umanità intatta, che per fortuna ancora sopravvive. L’ho scritto anche ne Il male d’amore, anche se di altro amore si parlava. E lasciarsi invadere non significa lasciarsi annientare, sono due cose differenti.
Il tunnel, per usare una metafora banale e conosciuta, va attraversato, e alcuni tunnel sono più lunghi e cupi di altri nei quali la luce invece è promessa a chi li percorre.
E scopri che puoi ridere per una considerazione insolente, puoi star bene perché raccogli una cascata di monetine a un’anziana che non riesce più a piegarsi per farlo da sola, puoi provare tenerezza per un bimbetto che maldestro balla ascoltando musica rock, puoi sentirti intellettualmente stimolata da una conversazione con le tue allieve sull’etica. Sei nel tunnel, ci resterai parecchio, ma la luce filtra a dispetto di tutto e ti costringe a vivere il presente. Un presente nuovo, diverso, mancante di tasselli esistenti fin dalla tua nascita e che per questo così… vuoto.
C’è una casa adesso nella quale manca il cuore. Un grembiule da cucina lindo e ripiegato riposa per sempre in un cassetto. Un piccolo orologio da polso produce il suo tic tac come prima, ancora e ancora. Le piante chiedono acqua perché vogliono vivere, su quei centrini fati all’uncinetto. Il bastone treppiede sta in un angolo, abbandonato a se stesso. Ma la luce entra prepotente dalle finestre e mi invade, illumina le foto incorniciate, il mobilio, il divano su cui lei sedeva con me negando di essersi appisolata. E ridevamo, di questo.
Adesso, su quel divano, ci sono solo io e l’eco di quelle risatine è talmente lontano eppure così dolorosamente vicino.
Fa freddo. Ma la luce ancora resta e io cammino senza cadere.
Vorrei… cosa vorrei?
Vorrei ancora poter dire “Andiamo a far la spesa mamma”.
