Susanna Trossero

scrittrice

Pappagalli di città

pappagalli di città

Sebbene l’aria mattutina sia sempre piuttosto frizzante, e le sciarpe non si siano ancora trasformate in inutili accessori, c’è qualcosa nell’aria che fa pensare alla primavera. Non so bene se si tratti di uno stato mentale che la chiama a rapporto per necessità, o se piuttosto si tratti invece del colore del cielo, oggi così luminoso, e del profumo così diverso che proviene dalla terra o dall’aria tutt’attorno…

Il tappeto di margheritine non è ancora stato intessuto, gli alberi sono spogli, nessuna fioritura dei glicini di via Margutta, non il garrire delle rondini, eppure qualcosa è cambiato e se ne sono accorti quegli strani pappagalli abitatori dei platani romani e golosi di datteri: sono arrivati in gruppo, qui sotto le mie finestre, e cantano festosi nel compiere evoluzioni e piroette, regalando un’immagine vacanziera, da paese tropicale. Macchie d’un verde acceso, si posano sugli alberi potati da un giardiniere solerte, e il rosso vivace del becco ricurvo picchetta qua e là in cerca di tesori da gustare.

Mi incanto sempre davanti agli animali, di qualunque genere o razza essi siano… non esistono al mondo soggetti più interessanti o affascinanti da fotografare. Eppure, qualcuno già avverte che questi pappagalli “stranieri” – ma oramai romani di adozione – potrebbero riprodursi in modo eccessivo, minacciando le coltivazioni fuori porta.

Potrebbero.

Taluni si sono addirittura rivolti ai vigili urbani per lamentarsi del volume del loro canto, che sale nel primo pomeriggio e al tramonto, dichiarando di non sentir bene ciò che dice la tv.

Nel frattempo, immettiamo quantità industriali di gas di scarico, ci dilettiamo con l’inquinamento acustico da clacson e marmitte, regaliamo al nostro corpo valide ragioni per ammalarsi, e siamo sempre più grigi nel volto e nell’anima.

I pappagalli in città credo siano l’ultimo dei problemi, nonché il primo allegro motivo per rivolgere lo sguardo verso l’alto e sorridere (ci riusciamo ancora?), senza necessariamente discutere di scie chimiche.

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Il miraggio dell’airone

Il cielo era turchino oggi e, anche se il maestrale dava segni di nervosismo,  oramai si può dire senza pericolo di smentita che la primavera è arrivata. Ma non solo lei. Qualcosa di strano sta accadendo da tempo su questi cieli romani e sebbene questo qualcosa ci lasci un po’ tutti ammaliati, ritengo non abbia un bel significato.

È cominciata con l’apparizione improvvisa di numerosi pappagalli d’un meraviglioso e brillante verde smeraldo; si muovevano in gruppo svolazzando di albero in albero già qualche mese fa, addirittura durante l’inaspettata nevicata. Sono stati fotografati in vari punti della città  lasciandoci tutti di stucco, con il naso all’insù, e si è pensato a qualche voliera dimenticata aperta. Magari, in seguito, i fuggiaschi hanno messo su famiglia riproducendosi anche in un ambiente non loro, ed ecco perché sono così tanti. Forse. Grande spirito di adattamento?

Poi, qualche settimana fa, qui nel mio quartiere di periferia, tra i passerotti che becchettavano in un’ampia aiuola, è atterrato un uccello trampoliere. Grande, bianco candido, le zampe lunghe e sottili come quelle dei fenicotteri, o degli aironi. Mi sono fermata a guardarlo e si muoveva un poco intimidito: pareva uno di quegli anziani che passeggiano sulla piazza, le mani dietro la schiena, con la testa piena di ricordi e l’aria spaesata dal presente. Lentamente e guardandosi attorno, tentava di fare amicizia con corvi e passerotti, ma invano: quelli se ne andavano di corsa, vuoi perché disturbati nella loro normalità da un intruso, vuoi per la “stazza” che forse li impauriva. E lui, il trampoliere, aveva l’aria di rimanerci un po’ male poverino.

Un amico mi ha fatto notare il parallelo tra un anziano che passeggia ricordando un mondo che non c’è più, e quell’uccello che non sa più dov’è, il suo mondo. Tutto oramai è inadatto a tutti, uccelli e anziani compresi.

Immobile, ho osservato il grande volatile e continuavo a vederci  l’uomo segnato dalle rughe, solitario e malinconico, con il panciotto, l’orologio da tasca, e il cappello. Cercavano amici, il trampoliere della realtà e l’anziano della mia fantasia, cercavano i luoghi in cui erano stati bene, senza più trovarli. È cambiato tutto. Nessuno dei due ritroverà ciò che ricorda, ciò che ha lasciato; il loro habitat naturale è scomparso, ogni cosa si è modificata in fretta e non è detto che sia per questo migliorata.

Non l’ho più visto, quel grande bianco trampoliere, ma spesso mi chiedo da dove è arrivato, così solitario, quanto è stato faticoso il suo volo, e se mai è riuscito a ritrovare i suoi simili dopo aver perduto la strada tratto in inganno forse da un flusso d’aria calda… Un miraggio.

E, oggi, un tucano. Sì, un tucano tra i platani romani. Ci è rimasto un po’, a dondolare sospinto dal vento che quasi con violenza si insinuava tra le fronde. Poi se n’è andato, lasciandomi addosso quell’inquietudine da film catastrofico. Che sta succedendo all’ecosistema del pianeta?

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