Susanna Trossero

scrittrice

Un volto, una storia

Vi capita mai di osservare il volto delle persone? Non quando vi ricordano qualcuno e allora vi soffermate sulla somiglianza, non quando sono particolarmente belli e allora catturano la vostra attenzione. No, non così. Intendo osservarne l’espressione cupa, serena, divertita, afflitta; i lineamenti, contratti o distesi; lo sguardo, vacuo o attento o contrariato; la freddezza o – al contrario – il calore che emana.

Può davvero essere anonimo, un viso, se si pensa a tutto questo? E cosa si cela dietro ognuna di queste caratteristiche, o di un’infinità d’altre che non ho citato?

Mi piace, per esempio, andare in treno. Ci sono degli orari strettamente collegati all’aspetto di volti sconosciuti, la cui espressione traduce ciò che l’orologio segnala. Al mattino, è facile trovare occhiaie da film della notte durato un po’ troppo, da chat sulle quali trascorrere le ore, da figli piccoli insonni e lamentosi, o magari da vicino di casa particolarmente rumoroso. Le occhiaie degli amanti, invece, sono differenti: accarezzano una pelle distesa e occhi luminosi, un’espressione assorta e lontanissima da quelle rotaie, una piega delle labbra quasi impercettibile ma che denota il piacere di esistere.

All’ora di pranzo non incontri gli sguardi: sono diretti a libri e giornali, eReader o telefoni cellulari. Gli sms si sprecano, qualcuno dormicchia con la testa che casca di lato.

Subito dopo eccoli, i ragazzi. Spesso preferiscono stare in piedi, non sentono il peso dello zaino e chiassosi si parlano addosso, ondeggiando a ogni fermata del treno.

C’è poi un orario in cui si somigliano davvero tutti: giovani e meno giovani, uomini e donne, eccentrici turisti o sobri impiegati. È quello del “ritorno”, del tardo pomeriggio, del bisogno del divano di casa, di levare le scarpe o allentare la cravatta.

Tutti quei visi divengono sciame accomunato da necessità simili a miraggi, con il tempo che pare fermarsi, sul treno.

Mi piace guardarli. Hanno tutti una storia e chi ha una storia non è mai anonimo, non è mai insignificante.

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Tempi moderni

Tempi moderni

Tempi moderni, con il progresso che avanza e tutto modifica, velocizza, semplicizza. È sempre così indispensabile? È davvero necessario “fare prima”? E fare prima significa fare meglio?

Si legge che anche la lingua italiana si sta adeguando ai tempi, e dunque anch’essa si… velocizza. Pare infatti naturale che l’uso della K sia divenuto inevitabile, e non solo tra i ragazzi purtroppo. Ed ecco, meraviglia delle meraviglie, frasi come:

Kuando ci vediamo? /Ke cosa facciamo sabato? /Ki è di turno oggi? /Kiamami ke ci accordiamo, e che vengono addirittura giustificate dai così detti esperti della lingua. Com’è possibile? Posso comprendere la necessità dei ragazzi di abbreviare le parole perché un solo sms ne contenga di più (altrimenti se ne pagano due), ma da qui a facilitare lo scempio di una lingua in altri frangenti… Leggete qui, è tratto da Wikipedia:

Vi è poi, nel naturale variare della lingua, un particolare caso di adattamento della k a un uso che era esclusivo precedentemente della lettera “c”. Psicolinguisti e neuro linguisti hanno tentato di spiegare tale fenomeno con una soluzione di tipo economico-linguistica: Scrivere “ch” comporta un dispendio eccessivo di forze, sia nell’aggiunta dell’inutile “h” (detta appunto mutina) sia nella difficile scelta di dove metterla (con la a? con la i? con la q?). Consigliano quindi di utilizzare la “k” in ogni occasione possibile.

E perché? Perché comporta un “dispendio eccessivo di forze”? Perché non conosciamo l’uso corretto della H? E da quando?

Suggerirei, a questi psicolinguisti o neuro linguisti, di dedicarsi ad approvare ben altri possibili cambiamenti nella lingua, pochi ma buoni: perché per esempio non notare che l’uso improprio dei pronomi “esso-essa” può creare discriminazione?

Infatti, egli ed ella si riferiscono soltanto a persona, rispettivamente maschile e femminile; esso ad animale o cosa di genere maschile, essa invece – oltre ad animale e cosa – può tranquillamente riferirsi  a persona di sesso femminile: perché? Lasciamo perdere la loro derivazione latina, e parliamo dell’uso “moderno” della lingua. Il femminile ella si è perduto per strada ma nei testi di grammatica che ancora oggi vengono utilizzati nelle scuole, essa ha sempre la stessa “destinazione d’uso”.

Ve n’eravate accorti?

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