Susanna Trossero

scrittrice

Le briciole non sfamano

Un pandoro farcitoTenere un blog, significa possedere nuovi occhi e imparare a guardarsi attorno: notando anche soltanto un dettaglio nell’insieme che lo custodisce (una parola, un’immagine, un suono, un profumo, un oggetto) ci si ritrova a riflettere e a spaziare in quell’altrove ricco di sensazioni che attendono d’essere scovate.

Scovate e poi scritte.

Chi mi legge non ha di certo difficoltà a notare che vi sono dei periodi in cui sono avara di post, ed è forse questa la vera motivazione: sono periodi in cui non osservo più. Capita a tutti di lasciarsi travolgere dal quotidiano, dalle incombenze, dal tran tran o da piccoli e grandi problemi. I piccoli spesso sono quelli che generano più contrarietà: noiosi come zanzare, si appropriano del nostro tempo e dei nostri pensieri, mandando sempre e solo un unico messaggio disturbante.

Ma, osservare, ascoltare, assaporare, annusare, toccare, è vivere a colori, ed io non voglio più farne a meno. I cinque sensi mai dovrebbero stare a riposo: sarebbe come vivere a metà.

E così oggi, lunedì, riprendo finalmente in mano il mio blog perché ho ascoltato con la giusta attenzione una donna che mi parlava dell’adattamento, del timore del cambiamento, di quel qualcosa che si desidera in gran segreto ma da cui spesso si fugge.

Mi ha detto di quanto sia facile accontentarsi, e io ricordo di aver letto che vi sono due categorie di persone: quelle che si accontentano delle briciole per quieto vivere, e quelle che divorano l’intera torta a discapito di chiunque. Sembra che queste due tipologie umane, questi due estremi, si completino a vicenda, ma lo sbilanciamento rende le prime eternamente affamate e le seconde mai soddisfatte e sempre in cerca di qualcosa. Qual è la via di mezzo? Dove, l’equilibrio?

Una volta, incappai in una frase che giudicai terribilmente dolorosa perché vibrante di verità: “Strisciare e strisciare nel deserto, inseguendo un miraggio. Quando poi si scopre che non c’è acqua ci si accontenta e si beve sabbia”.

Una frase come questa può provocare collassi emotivi, non è vero? Perché tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo scelto di “accontentarci” e abbiamo finto che quella sabbia che ci restava in gola potesse essere acqua di fonte, se soltanto ne avessimo ignorato la reale consistenza.

Paulo Coelho ha detto: “Accetta ciò che la vita ti offre e sforzati di bere dalle coppe che ti vengono presentate. Si devono assaporare tutti i vini: di alcuni, solo qualche sorso; di altri, l’intera bottiglia”, e ciò farà felici coloro che aspirano a ben altro che le briciole.

Personalmente trovo più vicina a me la frase di Larry Winget: “Una vecchia domanda: il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto Risposta: Chi se ne importa? La questione è se placa o no la tua sete”.

E voi, voi che mi leggete, siete inclini a sfamarvi con le briciole, o desiderosi di conquistare l’intera torta?

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Inutili macerie

Risentimento, da Wikipedia:

“Il risentimento (o rancore) è un’emozione data da un misto di rabbia e desiderio di rivalsa, protratto nel tempo, che si prova come conseguenza di un torto subito, sia esso reale o immaginario.”

Ecco: sia esso reale o immaginario. E, immaginario, spesso lo è.

Da giorni, e non è la prima volta, faccio il punto sulle persone che incrociamo per la nostra strada, e che a volte proseguono con noi sullo stesso marciapiede per un tempo la cui durata non ci è data di sapere in anticipo ma che ci viene rivelata quando svoltano per un’altra via (o svoltiamo noi).

Questo cambiar rotta, che decreta la fine di un incontro, sta semplicemente a significare che quel tempo è finito e prenderne atto con l’accettazione dovuta ci porterebbe a godere di nuove vie, di nuovi incontri o del piacere della solitudine, o ancora di un nuovo profumo di cui forse la via percorsa in precedenza non era impregnata.

Eppure ci si dilania, si odia, si invidia, si maledice, si vive aggrappati agli alberi della vecchia strada anche se oramai privi di linfa e di foglie. Risentimento. Perché, “protratto nel tempo”? Perché concedergli tanto spazio?

Ho notato che spesso lo prova anche chi, volontariamente, è stato l’artefice del cambiamento, ovvero colui che attratto dal nuovo ha lasciato la strada battuta e poi – voltandosi indietro – non ha visto lacrime o disperazione, non ha visto macerie, ma il sorriso di chi si è sentito liberato, altrettanto elettrizzato dalla nuova condizione e ha proseguito con passo spedito. Ci sono persone che si allontanano da noi ma che ancora di noi si cibano in segreto, sperando di essere indispensabili; persone che per sentire di esistere necessitano di sapere che mai saremo felici in loro assenza. Persone che preferiscono sapere che i nostri cassetti sono rimasti vuoti piuttosto che stracolmi di progetti e di vita. Il dolore di chi li ha visti andare via per alimentare la loro autostima: “Soffrono per me, perciò valgo”.

Quando ciò non accade, arriva il risentimento. Quello che non gli spetta, naturalmente.

Ma a chi spetta, in definitiva, il rancore?

Io direi a nessuno, perché si tratta solo di tempo perso.

Non spetta a chi ha torto, perché rivela un animo meschino.

Non spetta a chi ne avrebbe diritto, perché è soltanto tempo sottratto al bello che spesso sta dietro l’angolo ad attendere d’esser visto.

Sono colpita da ciò che siamo in quanto genere umano. Ogni giorno di più. E mi piace pensare in termini di castelli di sole, non di macerie; li auguro anche a tutti voi: spalancate le finestre dell’ala più alta, credetemi, ne vale la pena!

Vostra Susanna

 

 

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