Susanna Trossero

scrittrice

La voce di un romanzo

Vi è mai capitato di soffermarvi sul serio sui toni di voce di un romanzo? Sì, non dico assurdità, i libri ci parlano e usano toni di voce differenti a seconda di ciò che gli autori vogliono trasmettere a chi legge.

La voce narrante o i personaggi, si arrabbiano, gioiscono, sono preda di dubbi, ammiccano, urlano o sussurrano… Come? Attraverso la punteggiatura, naturalmente, che non si limita a regolare un testo bensì ne costruisce il senso (o lo stravolge quando viene usata in modo inappropriato).

Il modo migliore per scoprire se funziona, è la lettura a voce alta: noi, in maniera del tutto naturale e istintiva, quando parliamo inseriamo nel discorso pause brevi o lunghe, silenzi, attese, sospensioni, intonazioni, in base a ciò che vogliamo comunicare. Ebbene, tutto questo può tradursi altrettanto naturalmente nella punteggiatura di un testo, ovvero la punteggiatura è comunicazione.

A proposito di questo argomento, giorni fa ho letto un articolo su James Joyce che parlava del suo “Ulisse”, considerato uno dei più innovativi romanzi del XX° secolo. Monologo interiore, flusso di coscienza, e sul finire – credo negli ultimi 8 lunghi periodi – assenza di punteggiatura.

Ebbene, l’articolo svela che una delle ragioni – ma non certo la sola – che fece considerare quest’opera come moderna e innovativa, ovvero la particolarità della punteggiatura mancante, in realtà non fu una scelta stilistica dell’autore. Aveva subito ben undici interventi agli occhi poiché gradualmente stava perdendo la vista, e ciò rese la stesura di Ulisse sempre più difficoltosa. Scriveva a letto, in posizione prona, e cominciò a usare dei pastelli colorati per rendere più visibili le lettere. A complicare il tutto, la difficoltà nell’inserire la punteggiatura tra le righe e il renderla a lui stesso visibile, tanto che ad un certo punto si arrese e smise di usarla! Insomma, una causa di forza maggiore che ha contribuito a rendere i flussi di coscienza del suo protagonista ancora più incisivi e Joyce audace e coraggioso.

Vi lascio con un mio breve video sulla punteggiatura, esortandovi ad andare a scovare aneddoti o curiosità sugli scrittori che più amate: le sorprese sono sempre molto interessanti.

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Scrivere a mano: una magia dimenticata?

scrivere a mano

Buona cosa, il progresso. Il futuro serve a far di più e meglio, ma soltanto se non si dimentica ciò che sta alle sue spalle e che non sempre è datato oppure vecchio e inutile.

Il passato, nella vita di ogni giorno, dovrebbe essere considerato come parte integrante di ciò che siamo. Chi saremmo noi senza il nostro vissuto e le nostre memorie? Ne siamo il prodotto, in fondo. Non significa certo arenarsi, o non andare avanti. Significa invece non levare l’importanza a ciò che è in grado di gettare le basi su ciò che sarà.

Per esempio, quanto è cambiato il nostro modo di comunicare? Certo, tante cose si sono velocizzate e la tecnologia ci ha dato una grande mano sotto vari aspetti ma… Il linguaggio si sta impoverendo e la scrittura – quella a mano – è sempre più rara.

La psicologa Rita Maria Esposito, ricercatrice in Psicologia e Scienze Cognitive a Roma ha approfondito l’argomento su un numero della rivista Viversani, confermando importanti concetti dei quali mi sto da tempo interessando.

Riassumendo ciò che la ricercatrice sostiene, scrivere a mano aiuta la memoria a breve termine, regalando capacità di sintesi e di elaborazione. Favorisce l’apprendimento ed è importante per lo sviluppo cognitivo dei bambini. Favorisce inoltre un pensiero più profondo, aiuta a cercare e trovare soluzioni ai problemi.

Perché gettarci anche questo alle spalle?

Una tastiera, un carattere tipografico, non lasciano traccia intima di noi se non ovviamente nel contenuto di ciò che scriviamo. Nondimeno, lo scrivere a mano regala al foglio un’impronta autentica, rivelando tanto del nostro stato d’animo e addirittura del nostro senso estetico. Una immagine di noi più completa, spesso più vera e profonda… lo sanno bene i grafologi!

Il gesto stesso provoca qualcosa che ci riconduce verso la nostra essenza, mettendo in moto corpo e mente: ci fa soffermare su ciò che stiamo elaborando, sull’origine della parola che stiamo per trasferire su un foglio, sui processi mentali a lei collegati.

Come dice la Dottoressa, “Non si tratta di esaltare il passato a scapito delle nuove frontiere che la tecnologia può farci conoscere, ma di riconoscere alla scrittura a mano la sua utilità evolutiva”.

No, non smettiamo di scrivere a mano. Non facciamo che anche questa affascinante pratica sia dimenticata in virtù del progresso.

E, se non sapete ricreare la giusta atmosfera per ricominciare, regalatevi un taccuino e una penna, poi quando tutti dormono, e la vostra casa è immersa nel silenzio, scrivete un pensiero con la sola luce della candela a illuminare il foglio. Vi accorgerete di quale magia sia, e ne rimarrete incantati. Provateci, poi condividete le vostre impressioni. Con gli amici, con i vostri affetti più importanti. E, perché no, con me.

“Posso scrollarmi di dosso tutto mentre scrivo; i miei dolori scompaiono, il mio coraggio rinasce”. (Anne Frank)

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L’arte della comunicazione

L'arte della comunicazione

Molte delle persone che incontro o che ho incontrato nel passato, hanno lamentato un senso di oppressione dato dalle invisibili sbarre del quotidiano, unito a vuoti lasciati dalla solitudine, dalle incomprensioni, dall’incomunicabilità. Ma… e se la vera prigione fosse la nostra mente chiusa che si oppone all’esterno?

Forse non siamo preparati sufficientemente all’arte della comunicazione, all’uso corretto delle parole, dei silenzi, degli sguardi o dei sorrisi, né siamo così aperti da guardare in faccia i nostri limiti, i nostri “difetti”. Ne siamo spaventati, e allora meglio osservare e giudicare i limiti altrui…

Ma se soltanto ognuno di noi fosse in grado di facilitare la comunicazione dell’altro, quanto sarebbe più naturale “ascoltare”, “sentire” e soprattutto comprendere, riconoscersi negli altri, condividere autentiche fragilità piuttosto che mostrare forza e determinazioni fasulle.

Le parole sono tutto ciò che abbiamo, ha detto qualcuno, eppure quanto poco e male le usiamo. E dov’è finita l’empatia? Quell’ascoltare un altro con limpidezza, con attenzione autentica, facendo il vuoto dentro per lasciargli spazio e sforzandosi di immedesimarsi in lui, nei suoi bisogni, nei suoi disagi, senza valutarli né giudicarli.

Quanta fatica, questo nostro camminare tra gli altri, quanto possono diventare nodosi ciocchi di legno, le nostre gambe, quando affondiamo nel timore di non essere più in grado di distinguere i convenevoli dall’autenticità. Impervie salite, discese improvvise nelle quali precipitare, e scale, scalinate di pietra, di marmo, dapprima comode poi ripide, malferme o disastrate, dove temere di cadere, di perdere l’equilibrio, dove muoversi incerti, insicuri, timorosi.

Tuttavia il gioco vale la candela, perché è negli altri che ci completiamo, in ogni incontro, in una amicizia, nell’amore, in uno scambio. E che importa se in passato siamo stati delusi, negli incontri, nelle amicizie, nell’amore o in uno scambio. La memoria non può non essere bagnata di lacrime, ne è un grande contenitore, ma il presente necessità di contatti umani sempre e comunque: conoscete qualcuno che si senta felice e non avverta in questa felicità l’esigenza di condividerla? E ancora: conoscete conoscete qualcuno che si senta felice e non avverta in questa felicità l’esigenza di condividerla?

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