Susanna Trossero

scrittrice

Perdersi per poi ritrovarsi

Perdersi. Perdersi in qualcosa o in qualcuno, nel nulla o nel troppo.

Siamo destinati a perderci, non è vero? Anche chi muore di noia e in niente si butta a capofitto, si sta perdendo: nell’apatia. Quindi non possiamo evitarlo, a quanto pare.

Personalmente, mi perdo spesso nella lettura, dimenticando tutto il resto. Mi perdo nel pensiero che vaga a briglia sciolta durante la notte, quando il sonno tarda ad arrivare. Mi sono persa in progetti mai portati a termine, in situazioni stupide, in passioni meravigliose come la scrittura. Ogni libro scritto, ogni racconto, è stato un perdersi. Per poco o per tanto tempo,

Mi sono persa dentro un dolore, anche questo capita. Ogni giorno diventa uguale, l’isolamento rende tutti estranei mentre sei tu l’estranea perché persa in un altrove soltanto tuo.

Mi sono persa nell’allegria. Succede, soprattutto in gioventù. Perché si può essere allegri anche con la maturità, certo che sì, ma quell’allegria che ti ingoia totalmente necessita di spensieratezza, incoscienza, leggerezza. Tutte meraviglie che in gioventù abbondano, di solito.

Mi sono persa in un’idea. Idea che diventa ossessione e non lascia spazio a niente altro. O mi sono persa dentro un’emozione.

Mi sono persa dentro una mancanza, divenuta subito mutilazione.

Spesso mi perdo davanti al mare. Il mare che lenisce, avvolge, trasporta. Che incanta. Che spinge a naufragare o invita a non lasciare la riva.

Ci si perde sempre in qualcosa. In qualcosa o in qualcuno. E qualcosa si perde. Ma riflettendoci su, vorrei dire a che te leggi, che se ti senti annegare perché fai parte di coloro che vivono una perdita, ricorda che solo chi non ha avuto niente, nulla ha da perdere.

Pensa a questo: se soffri perché hai perduto qualcosa, sei tra i fortunati che possono vantare un ricordo importante, comunque sia andata a finire. E, credimi, è l’unica maniera per non perdere due volte.

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Sono uno di quelli che aspettano

Chi comincia ad amare, deve essere pronto a soffrire“. (Antoine Gombaud)

Io sono uno di quelli che restano, che aspettano con pazienza in una forma di lotta silenziosa e arresa, che fingono di non vedere pur di lasciare le cose come stanno. Continuo a mostrare accoglienza perché tu ti senta così male, così in colpa, da smettere.

Ti amo, ti conosco, vivo con te ogni piccola stupida cosa: era ovvio che avrei vissuto con te anche la luce nuova che ti porti dietro e che con me non c’entra niente.

Non voglio sapere chi è, non voglio sapere perché o quando, non sopporterei di immaginarti fino in fondo.

Così invece posso fingere che sia solo un dubbio, un pensiero astratto o malfidato, e andare avanti nell’attesa che tutto torni come prima.

Te l’ho detto: io sono uno di quelli che aspettano. Un senza palle, per chi mi leggerà ridendo della mia debolezza, ma non si ride del dolore perché tocca a tutti prima o poi, e non potete sapere come vi ridurrà prima che accada.

A volte, a non affrontare, tutto si risistema. Ma le parole sfuggite, le confessioni o ammissioni, quelle restano per sempre cambiando le cose. Sono le parole a rompere gli equilibri, e sono quelle non dette a preservarli.

Posso fare a meno della tua sincerità e so che il mio non domandare, facilita il tuo silenzio. Anche questo si chiama equilibrio.

Un giorno tornerai a casa più spenta di quando eri uscita. Delusa da lui, forse tradita dalla falsa magia con cui ti aveva avvolta. Era solo un uomo, niente di speciale.

E con lacrime nascoste ti lascerai andare ai miei abbracci pensando che per fortuna non ho capito.

Pierpaolo

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Qualcosa da chiedere alle stelle cadenti

Strana epoca, la nostra. In cui bisogna per forza ironizzare su tutto. Colpire. Essere simpatici a qualunque costo per suscitare clamore o almeno apprezzamento. Emergere tra tanti, magari mostrando innate capacità di trovare la battuta giusta per tener banco, o meglio per essere ricordati.

Naturalmente la sana ironia non basta, dobbiamo “trasgredire”, mostrare quel qualcosa di più che se un tempo era giudicabile come “tocco di grazia”, oggi è catalogabile come cattivo gusto.

Tutti voi che mi state leggendo, forse sapete che cosa significa perdere qualcuno durante il cammino: un parente, un amico, una persona che vi è stata cara. I più fortunati no, ed io spero siate tanti, ma anche tra voi immuni da un simile dolore c’è chi ha comunque presenziato a un funerale, fosse anche per dovere o educazione.

Insomma, non esiste tra tutti noi qualcuno che non abbia visto lo sguardo mutilato di chi a un funerale è seduto in prima fila. O qualcuno che lo abbia avuto nei suoi occhi, quello sguardo. Io stessa lo conosco e l’ho avuto. Purtroppo più di una volta…

E così non capisco e non voglio capire come possa un’azienda che vive, mangia, si paga le vacanze basando il lavoro sulle mutilazioni altrui (e qualcuno deve pure farlo, ci mancherebbe!), accettare d’essere rappresentata attraverso una pubblicità disgustosa. Come può accettare di trovare nel suo onesto e delicato lavoro, motivo di ironia o ironizzarlo per acquisire nuova clientela.

Lo so, non capite, non ancora. E allora mi spiego.

Roma, da tempo, è tappezzata di grandi e vistosi manifesti pubblicitari, per i quali più volte ho sentito non solo commenti infastiditi ma anche malevoli o addirittura addolorati.

I suddetti manifesti, mostrano una bara infiocchettata a mo’ di dono, con la scritta a caratteri cubitali “regalo monolocale seminterrato”. Sotto l’immagine c’è il prezzo del funerale e l’offerta “bara in omaggio”. Il fiocco, è rosso come in ogni pacchetto che si rispetti.

Un’agenzia di pompe funebri ha davvero necessità di lanciare il suo marchio con simili trovate pubblicitarie che tanto ne sminuiscono la serietà e poco fanno ridere il cliente?

Perché, rivolgersi ad essa, dovrebbe strappare un sorriso? Non si tratta di acquistare un’auto nuova o dei pannelli solari, non uno yogurt o una schiuma da barba. Eppure bisogna colpire, risultare divertenti ad ogni costo. Emergere tra tutti.

Qualcuno definirà tutto questo un tentativo di esorcizzare: la morte, il dolore, ma a me personalmente parrebbe una pietosa giustificazione e – quello ottenuto – un pessimo risultato.

Marketing. E che irriverenza sia, altrimenti non esistiamo.

Il dilemma tuttavia oggi è: dobbiamo per forza esistere in questo modo? A voi la risposta.

Nel frattempo mi dedico al desiderio da esprimere in queste notti si stelle cadenti: stella stellina, restituiscici un po’ di quella umanità perduta per strada. Vedrai, saremo migliori.

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Il primo ricordo impresso nella memoria

Il primo ricordo impresso nella memoria

Il primo ricordo impresso nella memoria, è di me seduta sul pavimento di una stanza vuota; né mobili, né scatole, né sedie. I perché, i come e i quando, mi sono giunti dopo, negli anni, quando ho chiesto spiegazioni a queste immagini senza parole ancorate alla mia infanzia: il trasloco è già stato fatto, mia madre guarda fuori dalla finestra dandomi le spalle, in attesa di scorgere la proprietaria di casa che venga a riprendersi le chiavi.

La luce, in questo fotogramma, ha un che di estivo, ma non potrei giurarlo.

C’è un quadro, solo un quadro, per terra accanto a me. Io lo rammento di grosse dimensioni, ma di certo perché sono io quella piccola, e ciò modifica la realtà degli oggetti. Lo tocco, lo guardo, è un ritratto, forse una Madonna ma non potrei giurarlo. Non so perché verrà lasciato là al suo destino, nessuno me lo ha mai saputo spiegare, però sono sicura che non ci ha mai seguiti nella nuova casa, quella che mi ha vista crescere.
Anche gli oggetti, muoiono…

Credo di essere nata quel giorno, sebbene oggi io sappia che avevo appena compiuto due anni. Non sei al mondo se niente puoi imprimere nella memoria; non esisti se non hai traccia di te, di chi eri, di cosa provavi. O di cosa hai fatto.

Galleggi in un limbo fatto di necessità elementari: nutrirsi, dormire, ripararsi dal caldo o dal freddo. Neppure hai idea di chi sarai, seppur esistendo.

Riflettendo su questo mio primo ricordo e sui due anni dei quali niente mi è rimasto, mi domando che cosa si provi a perdere la memoria. È come un ricominciare? È avere una nuova possibilità, un rinascere, o è soltanto terribile mutilazione? È vivere più vite, o è afflizione perché troppo si è perduto?

Se dovessi resettare la mia, di memoria, con la possibilità di selezionare che cosa salvare e cosa no, eliminerei alcune scelte che non hanno portato a niente, ma non tutte perché le ritengo necessarie: gli errori di valutazione spianano il terreno, insegnano a vivere.

Il resto, lo lascerei intatto. Anche il dolore per le perdite subìte, affetti che non vedrò invecchiare ma che tanto mi hanno donato. Se cancellassi la terribile sofferenza che ogni mutilazione infligge, non ricorderei l’amore provato né quello ricevuto, dunque che niente di ciò sia modificato, in quel vecchio edificio in parte trascurato che è la mia memoria. All’apparenza fatiscente, è ricco di storie, abitato da fantasmi, accarezzato dai venti del tempo.

“La memoria umana è veramente qualcosa di strano. Sfioro un braccio e trovo la voce di un’altra persona. Tocco dei volti e i loro occhi si allontanano. Scopro un cielo azzurro e tutte le forme intorno si nascondono. Attraverso un ponte e non c’è nessun fiume sotto. Come sono inafferrabili taluni ricordi nel loro essere appesi a niente, forme in continuo movimento che restituiscono il niente in un niente più grande.” (Fabrizio Caramagna)

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Ancorati alla banchina del quotidiano

Ancorati alla banchina del quotidiano

Ci sono persone fuorvianti. Persone che danno un’immagine di se stesse tale da far credere ciò che non è. Persone comuni, banali, che indossano l’abito dell’essere superiore. Gli calza a pennello quando incappano in chi è dimentico del detto “L’abito non fa il monaco”, e vantando doti innate e intelligenza senza eguali, riescono a tenere a bada chi intelligente lo è davvero. Un modo subdolo e sottile di andare avanti e sostenere lo sguardo dei più autentici, di chi sa mostrarsi nudo, di chi non ama corazze né barriere e conosce il significato della parola umiltà, che nulla lede alla dignità. Come fanno? Un po’ di eloquio, finta riservatezza, una risposta a tutto.

Io ne ho incontrate alcune, e voi?

Ci vuole tempo, tempo e distanza, per capire. Capire che la loro cultura enciclopedica non è vita. Che le apparenti “idee chiare” sono pensiero d’altri rielaborato. Che ciò di cui sanno parlare è stato sapientemente costruito sul divano di casa, sfogliando volumi di un’enciclopedia. Ancorati eternamente alla banchina del quotidiano, parlano di luoghi meravigliosi senza averli mai visti. Sentenziano di culture differenti senza aver mai interagito con nessuno. Di dolore senza aver mai avuto il fegato di sostenerlo, magari tenendo la mano di qualcuno che se ne sta andando consumato da una malattia.

Parlano di viaggi ma faticano a superare la porta di casa perché viaggiare stanca, e le scoperte si possono fare anche grazie alla rete. D’arte, ma non hanno mai visitato un museo, né sono rimasti abbagliati da quei miracolosi raggi di luce che certi pittori hanno saputo riprodurre sulle tele esposte. Si fa una fila interminabile, per entrare in un museo…

Di musica, e non hanno mai avuto la fortuna di osservare qualcuno che la compone, di udire la magia di una nota che legandosi a quella successiva dà alla luce nuove melodie.

Criticano con supponenza scrittori capaci e non si sono mai cimentati in una narrazione che possieda un briciolo di dignità letteraria.

Giudicano film o registi, stroncandoli senza mai andare al cinema e temono il traffico, la sveglia al mattino, la fatica fisica.

Guardateli, vi prego, e non lasciatevi fuorviare da quella sicurezza che scade in arroganza, un vocabolario più ricco del vostro e un piedistallo sul quale appollaiarsi.

E se, come me, avete girato il mondo, conosciuto tante persone, sofferto per mutilazioni davanti alle quali non vi siete nascosti né sottratti… Se vi siete incantati e stupiti davanti a un Caravaggio, se avete ascoltato prima ancora di parlare, e accettato incombenze, fatica o seccature senza fingervi malati, o se giudicate libri, musica, film solo dopo esservi immersi in tutto ciò sporcandovi le mani… beh, sappiate che siete vivi, avete vissuto. Voi, voi sì.

L’intelligenza non è il risultato di una gara tra chi immagazzina più nozioni; è quel qualcosa che rende curiosi, che spinge ad uscire per scoprire chi o cosa ci aspetta oltre la porta di casa, sia che si tratti di un luogo, di una persona o di una situazione. Il resto è solo una buona memoria, sinapsi allenate, ostentata saccenza. E vita non vissuta.

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