Susanna Trossero

scrittrice

Saracinesche chiuse

Saracinesche chiuse

Un fiume in piena, lo scorrere del tempo.

Inarrestabile, ha già lasciato dietro di sé il Natale e tutte quelle giornate di festa in cui ancor più si corre: acquisti, pranzi e cene da organizzare, doni da impacchettare, addobbi, incontri, telefonate…

Dopo i grandi festeggiamenti – almeno per i più – con orge di cibo e tanta compagnia, adesso ci si appresta ad affrontare concretamente progetti, promesse, buoni propositi. Il 2019 fa parte del passato e va a sommarsi con tutti quegli anni precedenti vissuti in attesa di quello successivo: sì, siamo sempre in attesa di qualcosa che deve arrivare, e spesso guardiamo al passato con occhio severo e accusatore (quando non malinconico o nostalgico).

Il primo gennaio mi sono regalata una passeggiata in piena solitudine. Era mattino, il cielo terso, i rami nudi degli alberi immobili, non un alito di vento.

Mi è piaciuto, il silenzio dopo tanti botti, voci, e auto che vanno via, saluti dalle finestre, musica dalle terrazze.

Una pace irreale, di saracinesche chiuse, di persone ancora sotto le coperte, di energico freddo sul viso. Soltanto un uomo che fumava il sigaro, una lavatrice in moto, lontana, che riportava a un quotidiano normale, consueto. E dei piccioni in cerca di briciole.

Il 2020, per quelli della mia generazione appare quasi come un film di fantascienza; faccio parte di coloro che ricordano “Spazio 1999” o “2001 odissea nello spazio”, per intenderci. Comunque sia, è davvero arrivato e a guardarle bene – quelle saracinesche chiuse per la via deserta – mi sono chiesta se sia giunto il momento per tutti noi di considerare gli anni passati e densi di “avrei dovuto” o di “non avrei dovuto”, bagaglio da metter via una volta per tutte.

Far sì che ieri divenga quartiere di serrande abbassate, e trasformare l’oggi in vero punto di partenza, ma non per sperare in un domani migliore – altrimenti cominceremmo ad attendere il 2021 – bensì per vivere meglio l’oggi.

Ecco, mentre tutti ancora dormivano io a questo pensavo, ispirata dalla magia del silenzio e dai negozi chiusi.

Mi piace, camminare da sola. E guardare l’oggi pensando che è lui, il vero futuro.

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I diversamente vivi

diversamente vivi

Era così giovane. Uno sconosciuto poco più che adolescente, la cui alta statura strabiliava. Dinoccolato, sorridente, pallido e smunto. Stampelle. Tuta da ginnastica. Neppure un capello in testa, passeggiava per i corridoi dell’ospedale accompagnato da una madre minuta, intenta a non mostrare lacrime né paure.

Mi ha incantata il candore dello sguardo, la gioventù della sua pelle.

Ne ho visti tanti, portatori di morte… Parlavano, ridevano, speravano o temevano; alcuni “ignoravano”,  forse perché gli era stato taciuto l’inaccettabile.

Diversamente vivi.

Di quei tanti, ve n’erano che appartenevano alla mia storia di bambina o al mio vissuto di adulta: un pranzo, una gita in campagna o una giornata al mare, i regali di Natale, i compleanni o le foto di gruppo. Anni di condivisioni e risate… già, risate. Sono una di quelle persone fortunate che di risate ne hanno condiviso tante.

I portatori di morte andavano al cinema e al ristorante e, dopo poco, al cinema si distraevano e dal ristorante uscivano nauseati. Da un giorno all’altro tutto cambiava, per loro. Qualcosa cominciava a non andare: la sommossa delle cellule cattive contro quelle buone.

Difficile identificarsi in loro, personaggi di un mondo di fantascienza in cui i mostri hanno la meglio. A osservarli, ci si dissocia dal reale per non doversi soffermare su ciò che è preferibile tener fuori dalla porta, ma i portatori di morte non bussano: entrano e vivono nelle tue stesse stanze portando la paura.

A volte basta una telefonata, lo sguardo di qualcuno che ti aggancia per farti capire, o ancora una diagnosi scritta su un foglio che ti si tatua nella testa. Ed eccoli là, nelle nostre notti insonni, nel pensiero molesto, nel risveglio angosciato.

Quanti ne ho visti, in quei conti alla rovescia, consumarsi di vita mancata e fingere che nulla stia cambiando.

Mi hanno insegnato il dono prezioso di quell’oggi che mai andrebbe sprecato in favore di un domani aleatorio, e li ho visti aggrapparsi al suono della pioggia che batte sui vetri, al piccolo piacere di una tazza di té… E spesso, davvero troppo spesso, io ero là a tenergli la mano.

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La bella stagione

Piange il mio corpo, in una notte di stelle irriverenti. Piange copiose lacrime di sudore eruttanti da pori fino a ieri ostruiti dal gelo dell’inverno. Piange il suo lamento privato e tuttavia comune a un popolo di intolleranti, mentre immonde zanzare banchettano, attratte dalla palude maleodorante in cui sono immerso.

I savi impazziscono stanotte e i pazzi affinano le loro arti, fra le quali l’autodistruzione primeggia, regina incontrastata. Ma io, povero piccolo essere umano incatalogabile, grido in un silenzio claustrofobico e senza via d’uscita.

Anche i grilli rantolano serenate non richieste e le finestre spalancate sul niente mi privano di intimità vitali, senza null’altro concedere in cambio. Un alito di vento è solo fantascienza mentre il calore delle lenzuola mi ustiona l’anima.

Ma respiro, dunque sono vivo e la vita, nella sua caducità, mi accompagna in questo girone dell’inferno dal quale mi è impossibile fuggire. Se volessi tradire il mio Dio, non avrei neppure quei miseri trenta denari necessari; per andare lontano poi, ne occorrono molti di più.

Chi ha detto mai che l’uomo non possiede alcun potere sul tempo? Situazioni a noi aliene ci corredano di occhi capaci, con un solo sguardo, di rallentare fino all’inverosimile le lancette di qualunque orologio… Ma questa strana dote va perfezionata poiché non siamo ancora in grado di gestirla al meglio: ahimè, è risaputo che allo stesso modo è la nostra gioia ad aumentarne la velocità.

Un potere innegabile, certo, tuttavia così ingannevole da far impietosire il tempo stesso. Tutt’altro che defraudato, ci osserva in silenzio sorridendo magnanimo, nella veste di un padre che osserva il suo bambino fare un uso scorretto e confuso delle posate, perdendo irrimediabilmente buona parte del contenuto del suo piatto.

Che poveri sciocchi siamo…

Una notte eterna dunque è ciò che mi attende e le ali della fantasia, tarpate da tanta canicola, non mi saranno d’aiuto.

Un miraggio inopportuno, in bella mostra dentro il frigorifero, mi disseta solo momentaneamente. Ma l’arsura è dietro l’angolo, sul cuscino, in attesa ch’io tenti di dormire.

Non trovo pace e il calvario è autoalimentato da pensieri negativi, ma come averne di diversi in situazioni così ostili?

Manca l’aria, ho paura, e se domani tutto si ripetesse come adesso? E poi dopo e dopo ancora? E se durasse dei mesi? Se fosse questa la fine del mondo profetizzata dai Maya?

Su questa domanda, non so come, tutto mi sfugge di mano e precipito in un sonno tutt’altro che ristoratore, fra creature minacciose e uomini deformi, tutti in fila per due in attesa di salire su di un’arca rattoppata alla meglio e per niente affidabile.

Non molto tempo dopo albeggia e so di essere sopravvissuto. Come tutti, del resto.

Accade ogni anno.

È  arrivata la bella stagione.

 (Pubblicato nel 2008 da Giulio Perrone Editore, nell’antologia “Arrivano le vacanze”)

 

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