Susanna Trossero

scrittrice

Lasciar parlare la musica

Ieri, in uno scambio di riflessioni sulla musica, qualcuno mi ha detto una frase illuminante: per ascoltare davvero la musica dovremmo fingere tutti di essere ciechi.

Mi è passata davanti una carrellata di immagini d’ogni genere, legate ai grandi musicisti del passato, ai cantanti di successo attuali, ai personaggi costruiti dietro gruppi in vetta alle classifiche, al loro aspetto o alle trasgressioni, alle esasperazioni e ai travestimenti, al privato reso pubblico, e mi sono domandata se la musica, le note, una melodia, l’emozione del suono, siano davvero in primo piano, se siamo capaci di lasciarci invadere da accordi e parole o necessitiamo d’altro…

Forse, se davvero fossimo ciechi, saremmo più selettivi. Forse, impareremmo a conoscere meglio la musica o più semplicemente la lasceremmo penetrare in noi in maniera più profonda. Quando ascolto un brano che amo ho necessità di un luogo tutto mio, l’auto o la casa per esempio, e di solitudine. Non mi serve il volto, l’aspetto, il look di chi canta o suona per provare emozioni, non mi serviva neppure da giovanissima. Non andavo ai concerti per aggiungere qualcosa a ciò che apprezzavo ma per sentire voci e note dal vivo, senza necessità di contorni. E, spesso, all’arrivo dei pezzi tanto attesi e amati, chiudevo gli occhi e cantavo anche io, cieca e sola.

Certo, mi rendo conto che quando al talento si uniscono carisma, presenza scenica, impatto forte, il sapersi esibire mostrando un modo di vivere, una storia, un personaggio condendo il tutto – diciamocelo – con una maniacale preparazione fisica, il coinvolgimento si rafforza: lo dice la storia dei più grandi gruppi del passato e il successo degli odierni Maneskin, per esempio.

Eppure… quella considerazione sull’ascolto da non vedenti, mi ha confermato ciò che da sempre cerco quando voglio avvolgermi di musica: non fisico da palestrati, non trucchi e belletti, non travestimenti, non mimica facciale magnetica né spettacoli pirotecnici. Niente trucco niente inganno: musica. Nel silenzio rotto solo dalle note che sì, possono anche essere urlate, ma restano note e parole che non necessitano di contorni per riempire l’aria. Solo attraverso quelle amo un musicista o un cantante, così come attraverso le pagine di un libro amo un autore. L’emozione scaturita è per me me magnetismo, fascinazione.

Mi confonde non poco questa riflessione. Voglio dire, abbiamo tutti i nostri idoli e gli idoli hanno un volto… Nondimeno, mi piace pensare che sul palco salga il talento, non soltanto la celebrità. E mi pare che alcuni tra i più grandi – vedi Mina e Battisti – abbiano dimostrato di esistere e di poter lasciare un segno indelebile anche allontanandosi dalla ribalta, dall’attenzione invadente dei media, lasciando che fosse la musica a parlare per loro.

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Un concerto alla tv

Un concerto alla tv, i fari colorati sul pubblico… Un rock italiano le cui parole ti sono familiari, e ti ritrovi ad annusare l’aria di quella volta in cui la tua amica rideva come una matta, mentre insieme in auto cantavate proprio questa canzone, stonando senza pudore pur di usare tutta la voce di cui entrambe eravate in possesso.

Canto dell’amore, inno alla vita e a quella gioventù che già cominciava ad allontanarsi, seppur ancora molto lentamente.

Guidare piaceva a entrambe; l’auto era necessaria quando l’entusiasmo ci prendeva la mano e dovevamo assolutamente portarlo per strada con noi, magari verso il mare, lo stereo ad altissimo volume da sfidare con i nostri cori.

Ma era altrettanto necessaria quando le giornate andavano storte e la musica doveva rappresentarle, accentuare la malinconia, trovare le parole giuste per raccontare di noi a tutto ciò che scorreva fuori dal finestrino. Gli occhi lucidi e gli sguardi complici, nessun segreto seppur nell’assenza di parole. C’erano le canzoni, non avevamo bisogno di spiegar nulla l’una all’altra.

Tante stagioni, da allora.

Neppure la stessa auto, abbiamo più. Né gli stessi luoghi, abitiamo.

Eppure, ad ascoltare queste vecchie canzoni in tv, che ancora mi fanno canticchiare qui sul divano anche se in tua assenza, risento la tua risata che spesso cominciava in sordina, in attesa di un complice. E se io non mi facevo pregare per affiancarla, esplodeva in tutta la sua allegria vibrante di lacrime. Sì, questo lo ricordo bene: quanto più apparivi allegra, più io coglievo quell’alone nostalgico che ti portavi dietro e che rendeva i tuoi occhi più belli.

Tante cose, avevo compreso della tua essenza. Cose che altri non hanno mai colto perché ti hanno guardata in superficie. Cose che mi hanno sempre raccontato di quanto, ogni tuo presente sia sempre stato velato dal passato. Una nebbiolina costante, ad avvolgere il paesaggio in cui ti muovevi facendo del tuo meglio… la stessa nebbiolina che, ancora oggi, vela anche qualunque tua idea di futuro, divenendo parte di te senza la quale le tue risate avrebbero qualcosa in meno.

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Ancorati alla banchina del quotidiano

Ancorati alla banchina del quotidiano

Ci sono persone fuorvianti. Persone che danno un’immagine di se stesse tale da far credere ciò che non è. Persone comuni, banali, che indossano l’abito dell’essere superiore. Gli calza a pennello quando incappano in chi è dimentico del detto “L’abito non fa il monaco”, e vantando doti innate e intelligenza senza eguali, riescono a tenere a bada chi intelligente lo è davvero. Un modo subdolo e sottile di andare avanti e sostenere lo sguardo dei più autentici, di chi sa mostrarsi nudo, di chi non ama corazze né barriere e conosce il significato della parola umiltà, che nulla lede alla dignità. Come fanno? Un po’ di eloquio, finta riservatezza, una risposta a tutto.

Io ne ho incontrate alcune, e voi?

Ci vuole tempo, tempo e distanza, per capire. Capire che la loro cultura enciclopedica non è vita. Che le apparenti “idee chiare” sono pensiero d’altri rielaborato. Che ciò di cui sanno parlare è stato sapientemente costruito sul divano di casa, sfogliando volumi di un’enciclopedia. Ancorati eternamente alla banchina del quotidiano, parlano di luoghi meravigliosi senza averli mai visti. Sentenziano di culture differenti senza aver mai interagito con nessuno. Di dolore senza aver mai avuto il fegato di sostenerlo, magari tenendo la mano di qualcuno che se ne sta andando consumato da una malattia.

Parlano di viaggi ma faticano a superare la porta di casa perché viaggiare stanca, e le scoperte si possono fare anche grazie alla rete. D’arte, ma non hanno mai visitato un museo, né sono rimasti abbagliati da quei miracolosi raggi di luce che certi pittori hanno saputo riprodurre sulle tele esposte. Si fa una fila interminabile, per entrare in un museo…

Di musica, e non hanno mai avuto la fortuna di osservare qualcuno che la compone, di udire la magia di una nota che legandosi a quella successiva dà alla luce nuove melodie.

Criticano con supponenza scrittori capaci e non si sono mai cimentati in una narrazione che possieda un briciolo di dignità letteraria.

Giudicano film o registi, stroncandoli senza mai andare al cinema e temono il traffico, la sveglia al mattino, la fatica fisica.

Guardateli, vi prego, e non lasciatevi fuorviare da quella sicurezza che scade in arroganza, un vocabolario più ricco del vostro e un piedistallo sul quale appollaiarsi.

E se, come me, avete girato il mondo, conosciuto tante persone, sofferto per mutilazioni davanti alle quali non vi siete nascosti né sottratti… Se vi siete incantati e stupiti davanti a un Caravaggio, se avete ascoltato prima ancora di parlare, e accettato incombenze, fatica o seccature senza fingervi malati, o se giudicate libri, musica, film solo dopo esservi immersi in tutto ciò sporcandovi le mani… beh, sappiate che siete vivi, avete vissuto. Voi, voi sì.

L’intelligenza non è il risultato di una gara tra chi immagazzina più nozioni; è quel qualcosa che rende curiosi, che spinge ad uscire per scoprire chi o cosa ci aspetta oltre la porta di casa, sia che si tratti di un luogo, di una persona o di una situazione. Il resto è solo una buona memoria, sinapsi allenate, ostentata saccenza. E vita non vissuta.

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Canzoni stonate

io

Vi sfido.

Vi sfido a non trovare tra le infinite stanze della memoria, una canzone che rievochi un tempo lontano. Un tempo collocato così indietro, rispetto agli altri, così poco sfruttato nel rito delle evocazioni segrete…

In un attimo, note, parole, versi in musica, il presente annullato e quell’odore di bucato sulla pelle, il vento addosso mentre corri in bicicletta, nessun affanno – non è previsto nell’adolescenza – ma il batticuore sì, è previsto anzi obbligatorio.

L’aria era diversa, allora: penetrava fresca nei polmoni in qualunque stagione, accarezzava la nuca, si posava sulle guance, e cantare a squarciagola pedalando serviva a farsi udire dal ragazzino che leggeva fumetti dietro alle imposte chiuse. Più tardi, il quartiere si svegliava dall’indolenza pomeridiana, altre biciclette apparivano come lucertole al sole, e con loro altre voci, altri canti, mescolando le carte. Io restavo sola ancora per qualche minuto, in quella moltitudine di gote arrossate, a domandarmi chi avesse sentito la mia, di voce, e se mai fosse giunta all’interessato, improvvisamente intimidita dal coraggio di poche ore prima. Ma poi era l’età a vincere ogni incertezza, e divenivo anch’io gruppo dal quale trarre forza, e la canzone si trasformava in coro stonato, in unione, in gioventù chiassosa e felice.

Canzoni.

Canzoni a imprimersi per sempre come colonne sonore di film che credevi d’aver scordato, e che invece ancora conosci a memoria e nella memoria sono marchiate a fuoco. Risentirle è emozione, perché nulla di quella ragazzina è andato perso. Neppure in voi, credetemi. Vi basterà una canzone, per scoprirlo. Una canzone che funge da macchina del tempo ce l’abbiamo tutti. A qualcuno fa male, ad altri intenerisce, chissà tu che leggi a quale categoria appartieni.

E io? Beh, nessun rimpianto, nessun pentimento, è stato tutto così come doveva essere, nel bene e nel male. Sono stata una bambina felice e da adulta ricordo perfettamente il momento in cui ho pensato che di lì a poco sarei diventata grande. E voi lo ricordate? Raccontatemelo…

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Armonia dei sensi

Mi piace il tono pacato, che induce all’ascolto. Mi piace il silenzio perché impregnato di solitario pensiero. Mi piace il libro che tengo sulle gambe, perché mi avvolge di parole senza che il mio udito ne venga violentato. Ci sono momenti sacri, e spesso sono quelli vissuti in solitudine: unici compagni una storia da leggere o delle note da ascoltare. Non bisogna temerli ma proteggerli, questi momenti preziosi. Una mamma che mi è molto cara, oggi ha detto ai suoi bambini: “Ricordate che nella vita potrete sempre contare su due grandi amici: un buon libro e della buona musica”.

Tutti dovremmo educare i nostri figli a questo…

Perché affannarsi di continuo? Perché temere la solitudine?

Ogni cosa dovrebbe accadere nel giusto momento, per essere essa stessa quella giusta. Ogni accadimento dovrebbe armonizzarsi con l’insieme come una nota dello spartito.

E invece spesso facciamo sì che tutto strida e apriamo la porta alle note stonate.

Un buon libro, della buona musica, i fiori sulla terrazza: armonia.

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