Susanna Trossero

scrittrice

Un aldilà per i sentimenti

Oggi pensavo a chi passerà il Natale da solo. Ma non a chi ha subito mutilazioni a causa di lutti, bensì a tutti quelli che hanno perduto qualcuno in altro modo: la fine di una storia o di un matrimonio, un figlio che se ne va sbattendo una porta, una frattura in famiglia… Lutti anche questi, ma avvenuti non a causa del destino avverso. Lutti subiti o inferti, ma derivati da una scelta. Sentimenti che parevano tutto, trasformatisi in niente.

Dove vanno a finire i sentimenti, quando muoiono?

Nel pieno della loro presenza si mostrano forti, indistruttibili, avvolgono mente e cuore, capaci di farsi strada ovunque e contro ogni previsione… Cambiano la vita, i sentimenti, e se si è fortunati la rendono più ricca e degna di essere vissuta. Ai meno fortunati creano devastazioni interne, innescano battaglie, stravolgono convinzioni e razionalità.

Insomma, sono potenti, i sentimenti. E li si reputa eterni, mentre invadono tutto il nostro essere. Eterni, vitali. Diventano addirittura indissolubili da noi, bisogni impellenti che al solo pensare di doverne fare senza, soddisfatti o no che siano, ci manca l’aria.

Poi, e accade fin troppo spesso, per taluni muoiono. Una luce che si spegne, una presenza che diventa assenza, più niente.

Dove vanno a finire?

Nel ricordo, per alcuni. Conosco persone che non dimenticano mai ciò che è stato, a dispetto di come è andata a finire. Rammenteranno comunque le vibrazioni nello stomaco, il subbuglio nel quotidiano, l’abbraccio di una sorella, la risata di una madre, l’intimità di un’amicizia, o della volta che uno sguardo ha detto più di mille parole. E manterranno intatta la bellezza di quella forza prima che si trasformasse in qualcosa di blando, addirittura sgradevole. Prima che la luce si spegnesse.

Coloro che ne sono capaci, che sanno ricordare il bello, hanno un angolo del cuore in cui è sempre autunno, e sotto lo strato di foglie cadute custodiscono segretamente nomi e fotografie di volti indimenticabili e indimenticati, tasselli che compongono nostalgie e rimpianti. Malinconie piene di “se soltanto” e di “avrei dovuto” cementate dentro, in una stanza privata.

Per altri invece, spenta la luce tutto scompare come se non fosse mai avvenuto. Un nome che niente è più in grado di riesumare, un luogo speciale divenuto di nuovo e semplicemente un luogo. Una canzone le cui parole lasciano indifferenti o un profumo che non raggiunge la memoria.

É strano, anche amaro. O forse vitale. O magari addirittura normale.

L’irrequietezza dell’essere umano, spinge sempre verso nuovi sentimenti da sperimentare, nuove ascese che fanno dimenticare l’assenza di vere ali grazie alla capacità di riprendere il volo, sempre e comunque. A volte anche ridimensionando qualcuno di cui non si poteva fare a meno.

Oscar Wilde ha detto che “C’è sempre qualcosa di ridicolo nei sentimenti di chi non si ama più”. È così triste, così privo di rispetto per ciò che un tempo è stato, non è vero?

Chissà se c’è un aldilà per i sentimenti che muoiono. Se ci osservano da là prendendosi gioco di noi, degli abbracci sepolti, e di quelle eternità promesse e dimenticate o rimpiante.

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Io mi cibo di te, tu di me

Cibo

Tutto, è cibo per qualcun altro.

Si ciba del succube colui che cerca qualcuno da sopraffare e, sazio, si bea con gli amici.

La bellezza di una donna insicura, si ciba della mancanza di avvenenza di altre e si ciba di attenzioni l’innamorato che teme l’abbandono, e necessita di conferme costanti.

Di che cosa si ciba lo scaltro, se non dell’ingenuo che suo malgrado facilita mosse scorrette…

Dove c’è un debole c’è un forte con denti di vampiro e insaziabili appetiti, e là dove c’è un timido ecco arrivare il morso dell’arrogante!

Quante e quali invisibili situazioni, si annidano nel banale quotidiano, dove si allestiscono silenziosi banchetti che sembrano suddividere il genere umano in due distinte categorie: l’affamato, e colui che sfama. Nondimeno, come disse Peter De Vries, “L’ingordigia è un rifugio emotivo: è il segno che qualcosa ci sta divorando.” E allora, siamo davvero sicuri che il divoratore non sia egli stesso cibo?

Erich Fromm, nel suo “Avere o essere” così si pronunciò:

“In contrasto con bisogni fisiologici come la fame, che hanno precisi limiti di soddisfazione, legati alla fisiologia dell’organismo, l’ingordigia mentale – e ogni avidità è mentale, anche se la si soddisfa tramite il corpo – non ha un limite di sazietà, poiché il suo esaudimento non colma il vuoto interiore, la noia, il senso di solitudine, lo stato di depressione che invece dovrebbe vincere.”

Quanta fame e quanto cibo cela la famiglia, quanta e quanto tra gli affetti più cari o alla base di un legame; bramosia di difficile controllo, che rende cannibali anche gli insospettabili.

Rapporti a due, appena nati o collaudati, in cui proprio l’insicuro è colui che più morde e il più paziente diviene cibo per quieto vivere…

O le madri ingombranti, ingorde di sé stesse che – mai sazie – sbranano i figli considerati un intralcio.

I padri padroni, che divorano figli da loro mutilati senza averne mai abbastanza, o quelli assenti, troppo presi a cibarsi del loro stesso egoismo.

E i figli, famelici e voraci, dai continui bisogni insoddisfatti…

“Eppure ognuno uccide l’oggetto del suo amore,
da ognuno sia questo saputo:
v’è chi lo fa con sguardo amaro,
e chi con una lusinga,
il vile con un bacio,
l’animoso con la spada!”
(Oscar Wilde)

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Ho ricevuto una lettera da Kafka

kafka

Vi capita mai di vagare indolenti fra i titoli della vostra libreria, aprendo qua e là dei libri a caso, scoprendo vecchi segnalibri che non ricordavate di possedere, biglietti d’auguri o liste della spesa dimenticate?

Ieri pioveva a dirotto, qui a Roma: situazione ideale per “cercare” qualcosa, per lasciarsi stupire da storie e racconti che neppure sapevamo di avere. In questa morbida e pacata escursione, io ho incontrato Franz Kafka, del quale ho diversi libri compreso un interessante saggio che ne illustra la psicologia, ma ciò che mi ha attratta è stato un piccolo tascabile della Newton Compton Editori: l’edizione integrale di “Lettera al padre”. Rileggerlo, dopo anni, è stato quasi come leggerlo per la prima volta, respirando all’interno di un carcere personale che non mi appartiene ma che è facile comprendere grazie all’abilità dell’autore. E così l’ho visto, mite, discreto e timido, afflitto dal grigiore di una vita tormentata dalla sua stessa vena creativa e dalla vocazione all’introspezione; l’ho visto, scrivere una lettera che mai arriverà a destinazione così come forse a tutti noi è accaduto. Uno sfogo, una necessità, la speranza di liberarsi da un nodo scorsoio, di affrancarsi da un padre rude, che si è fatto da solo e non ha alcun dubbio sulla sua stessa grandezza… Un uomo così pieno di sé da illudersi d’essere il custode di verità assolute, mentre in realtà è solo un arrogante ottuso e pieno di pregiudizi che considera regole.

Quanto, una figura così imponente nei suoi limiti, può trasformare un mondo personale in un luogo senza luce? Quanto può umiliare o dar vita ad angosce esistenziali?

Una lettera simbolica, espellere per rinascere: si è liberato, Franz Kafka, scrivendo una lettera che mai avrebbe raggiunto il destinatario? Questo oggetto fisico, strumento di comunicazione ma anche fonte di risposte soprattutto per chi scrive, ha ossessionato e ammaliato altri grandi della letteratura: la lettera-confessione di Oscar Wilde in De Profundis, per esempio, o le ventimila lettere di Voltaire, i diciannove volumi che raccolgono quelle di Proust, quelle di Moravia, Pasolini, Henry Miller e molto più indietro nel tempo quelle di Epicuro, Platone, Cicerone, Orazio…

Mail, sms, chat, nuovi strumenti di comunicazione… Qualche rimpianto?

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Amore e sangue

amore e sangueEppure ognuno uccide l’oggetto del suo amore.
Da ognuno sia questo saputo,
v’è chi lo fa con sguardo amaro,
e chi con una lusinga.
Il vile con un bacio,
l’animoso con la spada.

Lo ha scritto Oscar Wilde, forse in piena era glaciale del cuore, un’era che almeno una volta nella vita tutti ci ha colti, impreparati o no.

Che dire, dell’Amore tanto si parla e anche io tanto ne ho scritto, ma non è forse vero che in definitiva ne sappiamo davvero poco? Possiamo descrivere nel dettaglio l’emozione dell’innamoramento, quei voli astratti perché provocati da perfetti sconosciuti che – divenendo poi conosciuti – non ci piacciono più tanto! Magia del nuovo, fascino della scoperta. Ma l’Amore è ben altro e ognuno di noi lo descrive in base alla sua esperienza, al suo bagaglio di necessità o desideri. Parla d’amore il romantico sognatore quanto il serial killer Stevanin, il quale aveva una fidanzata felice e appagata, ignara della sua vera natura, per esempio. A proposito di killer seriali, sto compiendo uno studio dettagliato sull’argomento e probabilmente presto – se siete interessati all’argomento – vi renderò partecipi. Non vi è, in questo, una mia ricerca del morboso, bensì la volontà o presunzione di comprendere l’incomprensibile, affascinata da sempre dalle mille sfaccettature della natura umana. E, nel frattempo, vi regalo un mio brevissimo racconto colorato di… rosso, pubblicato dalla Graphe.it nella raccolta “Lame e affini”.

 Un affettuoso consiglio: attenzione a chi ospitate nel vostro letto!

La Stanza

 Ti guardo dormire senza attendere un risveglio, mentre tende bianche svolazzano al rallentatore sotto i baci della calura estiva. Forse dovrei chiudere le imposte e interrompere il frinire esasperante di cicale inopportune, ma il mio corpo appesantito dai pensieri non vuole più saperne di muoversi.

E tu dormi, dormi ma non sudi e il tuo petto non si solleva né si abbassa in un ritmo da risacca così come forse dovrebbe. Che fare intanto? I pomeriggi estivi in campagna sono tutti uguali.

Sfioro le ragnatele dal soffitto con sguardo distratto mentre il ritratto di tua madre, che tutto osserva e tutto giudica, mi indispone come sempre… Perché appenderlo proprio là di fronte al letto? Quante sterili discussioni per quel chiodo di troppo e per i tanti ammuffiti cimeli di famiglia disseminati senza gusto in ogni dove. Qui far l’amore è sofferenza, è polvere e vecchiume che contamina ogni gesto e a che vale avvilupparsi di biancheria costosa se, andando via, ci si porta irrimediabilmente dietro indelebili tracce di antichi dissapori? Tuo padre è morto in questo letto, fra le braccia di una puttana senza nome, e tu è qui che adori morire fra le mie con rovinoso masochismo. Il tarlo irritante di un ricordo ti divora spesso l’anima dostogliendola da me ed io ti scruto  nella penombra in cui da sempre vivi, chiedendomi qual è il mio ruolo in questa stanza di scrittoi e merletti d’altri tempi.

Sei pallido. I tuoi lineamenti non sono distesi benché neppure contratti; un fantoccio, ecco cosa sei, inerme e lontano da elucubrazioni terrene. Domani anch’io sarò lontana.    Domani. Riesumerò i miei arcobaleni di un tempo, di quando vivevo alla luce e ridevo di niente in una casa piena di vita e vuota di te.

Amarti è incurvarsi a presidiare da invadenti scarafaggi il legno consumato di pavimenti putridi ed io sento, in cuor mio, di poter avere altro un po’ più in là, dove tu non sei.

Mi alzo piano ma lo scricchiolio del letto non ti sveglierà più. Levo le mie impronte dal manico del tuo coltello da caccia e sorrido del tuo andare senza salutare. La macchia rossa sul lenzuolo che ti avvolge il corpo si è estesa a dismisura, colorando irriverente il bianco e nero del tuo mondo.

Almeno in questo ti trascinerò con me.

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