Susanna Trossero

scrittrice

Guardando l’alba

La vita è quella cosa che passa mentre tu aspetti che cominci. L’oggi non c’è mai per nessuno: proiettati quotidianamente verso il futuro, non viviamo mai appieno il presente eppure ci rammarichiamo di un passato mal speso.

Presuntuosi, indolenti, pigri sognatori che poco agiscono per realizzare ciò che forse non desiderano davvero: questo siamo.

Si brama tanto, non è vero?

Però c’è il “vorrei ma non posso”;

il “vorrei ma me lo impediscono”;

il “vorrei ma è troppo difficile”;

il “vorrei ma non è più tempo” e il “vorrei ma non è ancora tempo”.

Non è più tempo, non è ancora tempo, ed è così che il presente smette di esistere.

Oggi non ho deduzioni né soluzioni, solo un poco di amarezza per tutto ciò che lasciamo scappar via in nome di niente.

Quando mio padre, in un letto d’ospedale, ascoltava la pioggia battere sui vetri in quel maledetto e lontano febbraio, disse “quanto vorrei essere in campagna, a cercare funghi, senza ombrello… cosa darei per quell’odore di terra bagnata!”, io compresi delle verità che mi cambiarono nel profondo. E promisi a me stessa di proteggerle per sempre, lasciando che mi cambiassero in qualche modo la vita. Lui, soltanto tre giorni dopo quella frase, ci lasciò.

Sono passati anni, tanti, ma faccio ancora di tutto per mantenere quella che in me divenne una sorta di promessa a lui. Perché la vita è una e se smetti di guardarti attorno l’hai già buttata via, dimentico di preziosi momenti di autentica felicità. Per taluni è godere della terra bagnata, per altri è il suono della risacca o il muso di un cane, la mano callosa di un nonno o la risata di un bambino.

C’è ancora tanta bellezza, aveva ragione mio padre, e lui la immaginava o sognava anche durante il dolore del corpo che ti tradisce.

Per te, papà, poche mattine or sono, svegliandomi per caso all’alba, sono andata alla finestra e ho subito la malia di tutto quel rosa che diventava arancio. Avevo ancora sonno ma ho scattato delle foto, la finestra spalancata su una bassa temperatura. Non volevo perdermi l’alba di un giorno qualunque, perché anche in un giorno qualunque puoi trovare appagamento e magia. Forse, addirittura, felicità.

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Io albero, tu terra…

Io albero, tu terra...

9 febbraio 2017, metà della mia vita trascorsa senza te.

Chissà se un giorno ci rivedremo…

Chissà se ci sarà un’altra vita, per noi due, dove amarci e completarci così come è accaduto in questa, per te troppo breve. Un’altra nella quale poterti raccontare quanto è stato grande il mio Amore per te. Una seconda occasione concessaci per far qualcosa l’uno per l’altro, anche se non più come padre e figlia.

Tu albero io pioggia, tu fratello io sorella, tu figlio io madre.

Io fiore tu terra, io stella che brilla grazie a te cielo.

Io la tua salute, o io il medico che asporta il tuo terribile male, ma questa volta salvandoti la vita, papà…

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Duello

gabbiani gemelli

Ha gli occhi verdi un po’ cupi, con le stesse pagliuzze color ruggine a me familiari dentro le quali mi perdevo durante le estati al mare, quando quel verde appariva meno cupo e autoritario, e invitava al lasciarsi vivere.
Di lui ho in mente la ragnatela di rughe tutt’intorno, ma lei quelle non le ha. Non ancora. Non le stesse.
Sono vittima di un furto, ma non mi capacito delle cose più elementari ed esordisco con una domanda che la fa sorridere con tutta la faccia:
“Da quanto tempo sei sua figlia?”
Ascoltandomi, in fondo, sorrido anch’io.
“Beh, non so se ti aspetti una vera risposta – mi dice – e comunque ho diciotto anni, dunque… Fatti un po’ di conti” e scuote la testa, saccente.
Cretina. Una cretina di diciotto anni che finge di saperla lunga, con quelle inequivocabili pagliuzze color ruggine. E che dire della gobbetta sul naso? A lei sta pure bene, la stronza.
“Com’è – insisto con tono affilato – avere il padre di un’altra?”
Sono sul piede di guerra, non penso neppure a lui né mi chiedo più con apprensione come stia. Ho altro da fare adesso.
“Sei assurda… Non ti ho rubato niente io, è solo che abbiamo lo stesso padre, io non ho preso quello di qualcun’altra come fosse un cappotto o l’ultimo pacco di riso al supermercato! Non è colpa mia né tua, siamo vittime di debolezze d’altri, tutto qui”.
“Tutto qui?!?”
“Sì, tutto qui. E io non ce l’ho con te. Forse dovresti assumere un atteggiamento più maturo.”
Più maturo? Ho dieci anni più di questa idiota che nemmeno ha il diritto di star qui, e non sopporto quel suo far ballare la gamba destra, o le occhiaie che sbandiera per mostrare la SUA preoccupazione per MIO padre.
“Chi ti ha detto dell’incidente?”
“Mia madre” risponde.
“E dov’è adesso? Non è abbastanza preoccupata?” sarcastica.
“È morta da tre anni. Me lo ha detto in sogno”.
Sì, figuriamoci, ora abbiamo pure la veggente.
Si apre una porta, lei scatta in piedi prima di me. PRIMA di me. Vederci dei significati non mi compete. Io sono quella incazzata.
“L’intervento è riuscito – dice l’estranea che puzza d’ospedale – dobbiamo solo aspettare. Tra 48 ore scioglieremo la prognosi, ma ha un’ottima tempra, siamo fiduciosi. Mi scusate un momento?” e risponde al cellulare.
Sul davanzale della grande finestra, si posano due gabbiani. Sembrano gemelli, due gocce d’acqua.
La diciottenne sorride, io per lei non esisto più. I gabbiani “fratelli” volano via. Sento il bisogno di ferirla.
“Io ci ho vissuto insieme, non posso permettermi di perderlo. Per te è diverso. Ne hai già fatto a meno ogni sera. Le figlie delle amanti non hanno favole, alla sera…”
Sorride ancora, credo andrà via, e ciò le salverà la vita. Perché la vorrei morta, adesso, mentre risponde serafica:
“Le favole possono essere raccontate anche al risveglio, mentre le figlie legittime dormono ignare altrove… ci hai mai pensato?”
L’infermiera si ricorda di noi proprio in quell’istante. Ci dice che papà invocava Paola.
“Chi di voi è Paola?”
Non sono io, non è lei. La famiglia si allarga.
Non è mia madre, non è la sua.
Paola?
La diciottenne sta ridendo a crepapelle, adesso.

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La stanza

la stanza

Ti guardo dormire senza attendere un risveglio, mentre tende bianche svolazzano al rallentatore sotto i baci della calura estiva. Forse dovrei chiudere le imposte e interrompere il frinire esasperante di cicale inopportune, ma il mio corpo appesantito dai pensieri non vuole più saperne di muoversi.

E tu dormi, dormi ma non sudi e il tuo petto non si solleva né si abbassa in un ritmo da risacca così come forse dovrebbe. Che fare intanto? I pomeriggi estivi in campagna sono tutti uguali.

Sfioro le ragnatele dal soffitto con sguardo distratto mentre il ritratto di tua madre, che tutto osserva e tutto giudica, mi indispone come sempre… Perché appenderlo proprio là di fronte al letto? Quante sterili discussioni per quel chiodo di troppo e per i tanti ammuffiti cimeli di famiglia disseminati senza gusto in ogni dove. Qui far l’amore è sofferenza, è polvere e vecchiume che contamina ogni gesto e a che vale avvilupparsi di biancheria costosa se, andando via, ci si porta irrimediabilmente dietro indelebili tracce di antichi dissapori? Tuo padre è morto in questo letto, fra le braccia di una puttana senza nome, e tu è qui che adori morire fra le mie con rovinoso masochismo. Il tarlo irritante di un ricordo ti divora spesso l’anima distogliendola da me e io ti scruto nella penombra in cui da sempre vivi, chiedendomi qual è il mio ruolo in questa stanza di scrittoi e merletti d’altri tempi.

Sei pallido. I tuoi lineamenti non sono distesi benché neppure contratti; un fantoccio, ecco cosa sei, inerme e lontano da elucubrazioni terrene. Domani anch’io sarò lontana. Domani. Riesumerò i miei arcobaleni di un tempo, di quando vivevo alla luce e ridevo di niente in una casa piena di vita e vuota di te.

Amarti è incurvarsi a presidiare da invadenti scarafaggi il legno consumato di pavimenti putridi e io sento, in cuor mio, di poter avere altro un po’ più in là, dove tu non sei.

Mi alzo piano ma lo scricchiolio del letto non ti sveglierà più. Levo le mie impronte dal manico del tuo coltello da caccia e sorrido del tuo andare senza salutare. La macchia rossa sul lenzuolo che ti avvolge il corpo si è estesa a dismisura, colorando irriverente il bianco e nero del tuo mondo.

Almeno in questo ti trascinerò con me.

(Dalla mia raccolta “Nella tana dell’Orco”)

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Mio padre

mio padreLa pioggia che batte, il colore uggioso che ovunque si stende e che regala alla casa la penombra invernale; il suono ritmico delle singole gocce e l’odore di terra che sale, quell’odore in cui ritrovare mio padre. Mio padre che va per funghi, che stacca i corbezzoli dai rami, che si sporca con more e gelsi, che raccoglie i ciclamini e che mi mostra i lunghi e viscidi lombrichi nascosti sotto i grandi sassi. Mio padre che si addormenta in spiaggia leggendo un libro giallo, che mi insegna a scrivere con le letterine di cartone, che fodera il mio sussidiario con carta colorata, affinché non si rovini. Mio padre che mi insegna il rispetto per ogni creatura vivente, che mi regala l’album di figurine degli animali e fa con me la raccolta, che riceve in regalo da un pastore un candido agnellino e ad un altro pastore lo regala facendosi giurare che non lo ucciderà. Che mi insegna ad andare in bicicletta, a ingrassare i cuscinetti dei pattini a rotelle, e che mi spiega che cosa sono una rondella o una brugola.

Mio padre, per il quale io ho sempre rappresentato un dono e che mai ha compreso quanto lui lo sia stato per me.

Mio padre che, assetato nel deserto, muore in un letto d’ospedale sognando un sorso di Coca Cola, ingoiato da un iroso maestrale.

Se ne va, insieme al mese di gennaio, lasciandomi una manciata di gettoni telefonici che non è mai riuscito a terminare.

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