Ogni mattina lei era là, che piovesse o splendesse il sole; era là quando raffiche di vento si abbattevano sugli alberi spogli, quando la grandine rovinava i raccolti, quando la siccità prosciugava le forze anche agli esseri umani. Aveva costruito una piccola pensilina con materiali di fortuna, ma lo aveva fatto bene perdinci, perché reggeva da anni ed era un efficacissimo riparo in ogni stagione dell’anno. Teneva i capelli raccolti e nascosti da un fazzoletto fiorito, e credo fosse per sentirsi sempre in ordine. Lo era di certo, in ordine, nascosta dietro un grembiule bianco candido con il solo vezzo di un ricamo delicato e discreto sull’unica tasca, quella dove teneva il denaro. Stava seduta sullo sgabello di legno zoppo e scheggiato in più punti, ma sempre pronta a balzare in piedi all’arrivo di un cliente, evento inaspettato là per quella strada di campagna. La sua era una casetta isolata, piantata in mezzo al nulla come un fiore selvatico e randagio che spunta su una terra brulla e inospitale; la strada era naturalmente poco trafficata, l’arrivo di una macchina pareva sempre un miracolo, ma lei era ottimista, e non c’era mattina che non apparecchiasse il suo tavolino di legno con una tovaglia che aveva conosciuto tempi migliori. Poi tornava in casa a prendere una scatola di cartone e ne sistemava il contenuto in due cestini di vimini fatti a mano: il cesto più grande per le uova più grandi, di gallina, poche ma sempre di giornata, e il più piccino per le uova di quaglia, che piacevano tanto ai bambini. Con tutto ciò dunque imbandiva la sua tavola e là attendeva. Io passavo in bicicletta due volte alla settimana, portando la mia gioventù sudata tra i campi, e lo facevo per tenermi in forma, certo, ma quella vecchina esercitava su di me qualcosa di insolito, che mi alleggeriva lo spirito più dell’attività fisica all’aperto. La prima volta che mi ero fermato, incuriosito, avevo acquistato le sue uova e lei mi aveva prestato uno strano fagotto di stoffa da appendere al manubrio, per portare a casa intatta la mia preziosa merce. Le uova si erano rivelate diverse, con quel gusto genuino che nei centri commerciali è andato perduto, ed ero tornato da lei con il suo fagotto vuoto, a ringraziarla per la bontà dell’acquisto. Poi, nel tempo, ero divenuto il suo cliente affezionato e adoravo fermarmi a far chiacchiere, a carpire ricette e informazioni preziose. Grazie a lei, in quel tempo ho scoperto che solo l’uovo che – immerso nell’acqua – va a fondo è fresco, che per evitare che il tuorlo dell’uovo sodo diventi verdognolo bisogna immergerlo in acqua fresca subito dopo la cottura e che le uova fresche non vanno conservate necessariamente in frigo. E le ricette… Indimenticabili le frittate con l’aggiunta di pezzetti di patata, peperoni a falde, o con salsiccia di pollo e cubetti di scamorza…e quei tocchi finali dati da un profumato trito di maggiorana e timo… e le cocottes imburrate…
Con le sue uova diventavo un uomo, i miei capelli imbiancavano molto lentamente mentre le sue spalle sempre più curve raccontavano di reumatismi e artriti a stento sopportati a dispetto dei suoi sorrisi; le portavo dei regali, foto di famiglia per farle conoscere le mie origini, attrezzi da cucina che lei definiva “infernali”, pacchi di pasta e di riso per la sua dispensa, frutta esotica davanti alla quale storceva il naso con diffidenza, ombrelli colorati con i quali giammai si riparava ma costruiva puntualmente buffi anfratti per le sue galline felici (così le definiva).
Una mattina, arrancando in salita sotto un sole cocente verso la sua pensilina, lei non c’era. E non c’era il giorno dopo e quello dopo ancora.
In silenzio, e forse col sorriso, aveva raggiunto il paradiso dei polli, così come lei raccontava dell’unico paradiso possibile. Non seppi mai dove fu sepolta né se morì in casa o dietro il suo banchetto, e mi mancò così tanto da levare il fiato.
Acquistai quelle vecchie mura e le resi più confortevoli, senza cancellare tuttavia la sua impronta, in grado di ingentilire anche un guscio d’uovo a Pasqua. Finito il lavoro, chiusi la porta a chiave e non entrai più. Per una vita intera, due volte alla settimana, mi recai a verificare che alle sue galline felici, né alle vecchie né alle nuove nate, mancasse mai nulla, sia che piovesse o che splendesse il sole. E che la pensilina e il banchetto non soccombessero alle stagioni e alla crudeltà del tempo.
Oggi ho novant’anni. Non vado più in bicicletta e sono un vecchio burbero e solitario. Adoro ancora le uova e il mio colesterolo sta benissimo, perdinci, alla faccia dei medici! Faccio solo un po’ fatica a portare ogni mattina la scatola fino al tavolino di legno e a riportarla indietro alla sera: lo faccio quando raffiche di vento si abbattono sugli alberi spogli, quando la grandine rovina i raccolti, quando la siccità prosciuga le forze anche agli esseri umani. Ma ne vale la pena: hanno costruito tante case qua intorno, e le mie uova vanno a ruba. Ho anche un cliente affezionato: un giovanotto che passa di qui tutte le settimane con i suoi figlioli e mi porta un sacco di regalini deliziosi. Chissà se mangia davvero tutte le uova che compra. Pare sempre preoccupato per me, per la mia salute, ma che sarà mai un po’ di mal d’ossa!
Non ho intenzione di morire, ho ancora da deliziarmi con le mie frittate di carciofi e pecorino, ma quando accadrà sono certo che i miei polli mi accoglieranno nel loro paradiso, l’unico dove intendo andare.