A Natale, si sa, si deve essere tutti più buoni, altrimenti che Natale è? Ma, passate le feste, possiamo dedicarci ad argomenti meno nobili, che sfiorano anche tutti coloro che storcono il naso dicendo “no, a me no”.
La vendetta, per esempio.
In un film di cui non ricordo il titolo, ho sentito Nicole Kidman pronunciare la frase “La vendetta è una pigra forma di sofferenza”, ed ho cercato di interpretarne il senso…
Pur di non soffrire per qualcosa che riteniamo insopportabile, meditiamo vendetta trovando così una ragione forte, un progetto per andare avanti nonostante tutto. Dopo, staremo meglio, e durante abbiamo qualcosa da attuare che richiede pazienza, determinazione, capacità organizzative. Inoltre bisogna essere capaci di fingere, e ciò richiede un certo lavoro, a meno che non siate abili mentitori per natura.
Forse, chissà, quella frase dice il vero.
Di vendetta ho parlato in classe, poiché è un argomento piuttosto “gettonato” in letteratura.
Una forma di giustizia personale che Charlotte Bronte, per esempio, ha fatto definire dalla sua Jane Heyre come qualcosa che possiede il sapore di un vino aromatico, che deliziosamente intossica. Deliziosamente… Strano avverbio: tanta delicatezza per un sentimento così forte fa sorridere, no? In fondo siamo stati educati a considerare l’impulso della vendetta piuttosto riprovevole! Eppure, c’è un momento in cui ne “Il Conte di Montecristo”, lo stesso Edmonde Dantes ha dubbi sulla legittimità morale della sua vendetta, ma noi lettori ne siamo contrariati: come sarebbe, gli è stato fatto un torto così grande, e così grande e ben pensata è la sua idea di vendetta, e adesso si fa venire gli scrupoli? No, proprio non ci va giù!
A noi lettori, piacciono molto le situazioni drammatiche (almeno quanto non ci piacciono nella vita!) e un romanzo incentrato sulla vendetta, se ben scritto crea le giuste attese trascinandoci dentro la storia, indipendentemente dal fatto che quel desiderio di vendetta sia giusto o riprovevole.
Sì, è proprio così: la motivazione, che dovrebbe essere l’elemento principale perché si provi empatia per il vendicatore, può anche passare in secondo piano se lo scrittore sa tenerci sulla corda.
Nessuno può negare che la vendetta sia una tra le più naturali tentazioni, e non parlo certo di quel desiderio che provoca spargimenti di sangue!
Mi riferisco, in realtà, a quelle piccole ma più che presenti vendette che si attuano nei rapporti con gli altri, nell’ambiente di lavoro, e ancor più frequenti sono tra chi si ama! No, non è un paradosso: è dimostrato che questo piatto che va gustato freddo, ci coinvolge ahimè molto di più degli elogi alla pace e al rispetto, o di quel porgere l’altra guancia! Si tratta di situazioni così sottili che non incutono il timore dell’arrivo delle forze dell’ordine a punirci. Sottili, sotterranee, ma non per questo poco dannose.
E se nei rapporti di coppia, quando bisognerebbe imparare a fare un passo indietro, a “disinnescare”, è in verità una costante, lo è anche nei bambini. Sì, la vendetta è più che presente nei meccanismi infantili: i bambini la conoscono bene e sanno come metterla in pratica!
Ma, tornando a noi adulti, è davvero così grande il senso di “soddisfazione” provato una volta attuata?
Dapprima vittime, poi giudici, infine carnefici una volta emessa la sentenza, possiamo ritenerci soddisfatti o è soltanto una meschina aspirazione?
E ancora: il perdono è mostrarsi benevoli e comprensivi, o può essere considerato una forma di disprezzo per l’altro, al quale ci mostriamo palesemente superiori?
Henri Lacordaire risponde così:
“Volete essere felici per un istante? Vendicatevi! Volete essere felici per sempre? Perdonate!”
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