Susanna Trossero

scrittrice

Divagazioni domenicali

Domenica ho visitato la Basilica di Santa Maria in Montesanto, a Roma. Si affaccia su Piazza del Popolo e la sua prima pietra fu posata nel 1662, ma solo secoli dopo attorno a questa chiesa si è creato un bellissimo rapporto di collaborazione con artisti di vario genere e soprattutto credenti e non credenti, dando spazio alla creatività e alla cultura con apertura e accoglienza. Dal 1941 si celebra ogni domenica la messa degli artisti e da tempo desideravo visitarla. Sollevando lo sguardo ho ammirato la cupola concepita da Bernini, con quel vetro ovale in cui il cielo si insinua all’interno della Basilica. Suggestioni.

Ogni angolo di Roma, ogni via, mostra la bellezza dell’arte anche in queste splendide costruzioni ma non solo: a volte è una statua che abbellisce un palazzo, altre un piccolo balcone, una fontana o un busto, e gli stessi sampietrini, quei blocchetti di leucite calpestati da chissà quanti nomi e vite e storie…

Storie… Sì, più mi guardo attorno più le sento premere in me cercando di farsi spazio, ma sono ancora confuse, non riesco ad ascoltarle, a dar loro un senso, a sceglierne una da mettere sulla carta sviluppandola e lasciandomi andare alla fantasia che da sempre mi è compagna di vita.

In periodi come questi, di affaticamento mentale e confusione d’idee e di intenti, necessito di un buon romanzo da leggere. Leggere mi apre la mente e mi spinge in quella zona irreale in cui tutto può accadere e dove si incontrano personaggi in attesa di prendere vita. Leggere, leggere il libro giusto.

Genere? Qualcosa che mi faccia venire il mal di stomaco, che mi trascini provocando smottamenti. Ne ricordo alcuni, di libri che rileggerei più e più volte, ma non è questo il tempo delle riletture: urge qualcosa di nuovo e sconosciuto per svelare in me quel qualcosa di nuovo e sconosciuto che non si sta palesando ma di cui sento la presenza.

Ecco, uscita dalla Basilica, domenica mattina, tutto ciò che mi occorreva era nell’aria: il silenzio indolente che di certo non è tipico della capitale, i colori che smorzavano tutto ammantando di grigio case e vie, il cielo che prometteva pioggia, l’odore dei gelsomini, nessun fruscio perché regnava l’immobilità senza aliti di vento. Gli uccelli stranamente silenziosi, i cani al guinzaglio non emettevano un fiato. Una insolita mattinata in centro, eppure incredibilmente invitante. Ma, nessuna storia in me. Solo una perfetta ambientazione.

E magari Bernini era là, con raspa e scalpello, a sorridere del mio blocco dello scrittore.

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Il paradiso in terra è fatto di… libri!

Forse è una condizione patologica, la mia. Forse sono davvero una feticista. Di libri!!!

Io non posso farne a meno, e non mi limito a leggerli o scriverli: me ne circondo, li tocco, li annuso, li salvo da fine certa, li regalo, li sistemo in un ordine maniacale, non posso disfarmi neppure di quelli che non apprezzo o non ho letto volentieri.

Sarà grave?

In questo periodo ho sviluppato una speranza: se il paradiso esiste, ebbene io spero sia fatto di mucchi di pagine, migliaia di libri, frasi appuntate, foglietti stropicciati pieni di parole. E titoli, copertine, scatole piene di romanzi, odore di carta… Ma ho anche scoperto che di paradisi così ne esistono anche in terra e quando ci fai quella che definisci una capatina, scopri che è impossibile andare via, allontanartene.

Uno sta al mercato coperto del Tufello, a Roma. Qualcuno di buona volontà che si chiama Monica Maggi, ha deciso di dare una seconda possibilità ai libri rifiutati, abbandonati, addirittura gettati via. O semplicemente libri che non possono trovare più uno spazio in case troppo piccole, e ancora libri il cui proprietario non è più tra noi. Raccolti, catalogati, collocati su grandi banchi all’interno del mercato, e… regalati a chi li desidera! Sì, non scherzo, basta semplicemente andar là il giovedì o sabato mattina muniti di sacche capienti e scegliere. Unica regola: lo spirito di Alice nel paese delle meraviglie, o lo stato d’animo dei golosi davanti a una pasticceria. Perché là si va solo se si è ancora capaci di provare l’emozione giusta davanti a un dono.

Ecco, ho trovato il mio personale paradiso in terra, ma mi domando se – esaurite le seconde file nella mia libreria di casa – dovrò svuotare anche gli armadi per far posto a nuovi titoli!

Monica Maggi, insieme ad alcuni volontari che le danno una mano, ha creato tutto questo: giornalista, poetessa, scrittrice, si occupa da tempo di salvare i libri destinati al macero, ma del suo progetto Pagine Viaggianti, divenuto importante non solo per tutto il territorio romano (altri sono i punti in cui potete incontrarla) ma anche per il Comitato Scientifico dell’Unesco, prometto che vi racconterò qualcosa di più prossimamente, magari attraverso le sue stesse parole.

Nel frattempo, voi che amate i libri come o più di me, sappiatelo: il paradiso in terra esiste e… non costa niente!

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Vacanze romane

Il risveglio, in queste mattine d’agosto, è sempre scandito da una routine rilassante e placida. Le auto si muovono in lontananza ripartendo all’incrocio in base ai paterni consigli dei semafori. E sono poche, finalmente, perché Roma va svuotandosi fino a diventare vivibile, quasi a misura d’uomo, ecco perché oggi pare che loro – i semafori – non impongano ma suggeriscano.

C’è un lieve manto sulla distesa di case e strade, una coltre che ricorda la nebbia sui laghi, e annuncia calura mentre i cani passeggiano al guinzaglio.

La Moschea di recente costruzione svetta a est, mentre a sud la Cupola di San Pietro si vanta della sua età che la rende superiore alla città stessa e per questo quasi magnanima.

Dall’alto, i platani sembrano cespugli e i cespugli quasi scompaiono; oggi qualcuno nascerà e altri se ne andranno, mentre vacanzieri ignari intaseranno le autostrade…

In questa calma cittadina che alla calma invita, c’è un che di rassicurante che vorrei sfruttare per sfrondare le mie ore da ogni “da farsi subito”, e riempirle di “lo farò domani”. Perché vacanza non è solo un albergo lontano da casa, ma uno stato mentale. Un liberarsi dalla quotidianità, dalla sveglia, da ritmi e incombenze, per vagare indolenti nel proprio ambiente trasformandolo in oasi di pace.

Uscire per riscoprire il piacere del silenzio al tramonto, l’afa allontanata dalla brezza serale; le cicale ancora allegre, le strade vuote.

Un aereo, il primo del mattino, porta via altre persone contribuendo alla mia ricerca di suggestioni che solo le cornacchie riempiono di voci.

Complici le varianti Covid e la pigrizia, mi godo la città inseguendo la noia, condizione attraente e sottovalutata. Ho gelati a sufficienza, buoni libri da leggere, la giusta compagnia e scarpe adatte per camminare. Per trascorrere un agosto nella capitale non necessito d’altro.

In pace con il mondo vi auguro buone vacanze, ovunque voi andiate o decidiate di restare. Ma ricordate:

“Essere in vacanza è non avere niente da fare e avere tutto il giorno per farlo”. (Robert Orben)

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Quale domani vorremmo?

Sì, mi distraggo. Sì, sono reattiva e faccio cose che mi piacciono, che mi rilassano… Leggo, scrivo, guardo un bel film, preparo una torta con il mio compagno, chiacchiero al telefono con chi è lontano, mi concentro su piccole cose. Osservo. Penso.

Sì, mi distraggo. Come tutti del resto, anche se forse con meno difficoltà di altri perché non so cosa sia la noia, e non tanto perché la evito facendo di tutto bensì perché anche a stare in silenzio a pensare non mi annoio.

Eppure è tutto così irreale…

Ci siamo dentro fino al collo, lo so bene, ma a voi non capita di ritrovarvi sul divano di casa – magari dopo una commediola leggera in tv (di quelle che distraggono, appunto) – a pensare che è impossibile? Che non sta succedendo davvero?

A me capita ancora, lo ammetto. Chiusa in casa da tempo, un tempo che non può essere quantificato perché si è fermato, non riesco a volte a capacitarmi di questa nuova realtà. Se non fosse per quei numeri orrendi – a ieri 27 marzo, in Italia 62.013 contagiati, 10.361 guariti, 8.765 morti – e per quel silenzio innaturale che racconta di una natura più viva grazie all’orrore di una pandemia per tanti, troppi, letale. Vivo a Roma. Ho visto una farfalla gialla grandissima, dei piccoli roditori si inseguivano festosi tra i rami di un albero. Le volpi, di notte si aggirano per il quartiere. E quanti e quali uccelli che non ricordo di aver mai visto prima? Sono tornati anche i pettirossi e nelle fontane romane deserte, oggi vivono anatre multicolori.

Ma è davvero questo, il prezzo da pagare per tale bellezza? Riusciremo a tornare a quel “prima” dopo tanta paura, perdite, dolore, senza imparare niente?

O, finalmente, saremo un po’ meno arroganti, ci sentiremo meno immortali, e avremo scoperto che tante – troppe cose – che ritenevamo vitali e necessarie, forse non valgono niente?

Non sento auto, clacson, frenate, accelerate, imprecazioni. Neppure il tic tac della sveglia, perché adesso della sveglia non importa poi molto.

Ma sento il bisogno, per il mio “dopo virus”, di proteggere ciò che ho scoperto e che – credetemi – non è poca cosa: esistere significa riconoscere come fondamentale tutta quella vita che attorno ci respira discreta.

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Qualcosa da chiedere alle stelle cadenti

Strana epoca, la nostra. In cui bisogna per forza ironizzare su tutto. Colpire. Essere simpatici a qualunque costo per suscitare clamore o almeno apprezzamento. Emergere tra tanti, magari mostrando innate capacità di trovare la battuta giusta per tener banco, o meglio per essere ricordati.

Naturalmente la sana ironia non basta, dobbiamo “trasgredire”, mostrare quel qualcosa di più che se un tempo era giudicabile come “tocco di grazia”, oggi è catalogabile come cattivo gusto.

Tutti voi che mi state leggendo, forse sapete che cosa significa perdere qualcuno durante il cammino: un parente, un amico, una persona che vi è stata cara. I più fortunati no, ed io spero siate tanti, ma anche tra voi immuni da un simile dolore c’è chi ha comunque presenziato a un funerale, fosse anche per dovere o educazione.

Insomma, non esiste tra tutti noi qualcuno che non abbia visto lo sguardo mutilato di chi a un funerale è seduto in prima fila. O qualcuno che lo abbia avuto nei suoi occhi, quello sguardo. Io stessa lo conosco e l’ho avuto. Purtroppo più di una volta…

E così non capisco e non voglio capire come possa un’azienda che vive, mangia, si paga le vacanze basando il lavoro sulle mutilazioni altrui (e qualcuno deve pure farlo, ci mancherebbe!), accettare d’essere rappresentata attraverso una pubblicità disgustosa. Come può accettare di trovare nel suo onesto e delicato lavoro, motivo di ironia o ironizzarlo per acquisire nuova clientela.

Lo so, non capite, non ancora. E allora mi spiego.

Roma, da tempo, è tappezzata di grandi e vistosi manifesti pubblicitari, per i quali più volte ho sentito non solo commenti infastiditi ma anche malevoli o addirittura addolorati.

I suddetti manifesti, mostrano una bara infiocchettata a mo’ di dono, con la scritta a caratteri cubitali “regalo monolocale seminterrato”. Sotto l’immagine c’è il prezzo del funerale e l’offerta “bara in omaggio”. Il fiocco, è rosso come in ogni pacchetto che si rispetti.

Un’agenzia di pompe funebri ha davvero necessità di lanciare il suo marchio con simili trovate pubblicitarie che tanto ne sminuiscono la serietà e poco fanno ridere il cliente?

Perché, rivolgersi ad essa, dovrebbe strappare un sorriso? Non si tratta di acquistare un’auto nuova o dei pannelli solari, non uno yogurt o una schiuma da barba. Eppure bisogna colpire, risultare divertenti ad ogni costo. Emergere tra tutti.

Qualcuno definirà tutto questo un tentativo di esorcizzare: la morte, il dolore, ma a me personalmente parrebbe una pietosa giustificazione e – quello ottenuto – un pessimo risultato.

Marketing. E che irriverenza sia, altrimenti non esistiamo.

Il dilemma tuttavia oggi è: dobbiamo per forza esistere in questo modo? A voi la risposta.

Nel frattempo mi dedico al desiderio da esprimere in queste notti si stelle cadenti: stella stellina, restituiscici un po’ di quella umanità perduta per strada. Vedrai, saremo migliori.

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