Susanna Trossero

scrittrice

La foto più bella del mondo

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Vorrei, vorrei… Non so cosa vorrei. Forse poter fare un’escursione nel passato con la leggerezza di anni in cui tutto è possibile e tutto incanta.

Una ragazzina al mare, dopo una giornata trascorsa a creare sentieri e canali, magari attorno a castelli di sabbia decorati da conchiglie.

Un padre ragazzino e non per età, piuttosto per fantasia ed entusiasmo, che si diverte con te come un fratello maggiore e adora passare le giornate libere sulla spiaggia, che non è mai stanco per il lavoro né pigro da voler stare sul divano davanti alla tv. Fuori c’è il mondo, ti educa agli odori e ai colori, alla vita all’aria aperta, ai panini buoni dopo l’ultimo bagno, ma anche allo spettacolo dei ciclamini nel sottobosco d’autunno, o alla pioggia che spinge le lumache a farsi vive con quelle antennine buffe.

Una madre che ama l’abbronzatura, curata e attenta all’aspetto, severa e ligia al dovere che per amore ti tiene sempre sotto l’ala nel timore che tu scappi via. Ti copre quando fa freddo, ti sfama perché tu cresca forte e sana, vigila sulle tue vulnerabilità e ti fa piccole sorprese ogni volta che va a fare la spesa: un giornalino che adori, il salame più appetitoso del mondo, il maglioncino rosso che avevi notato all’Upim, un nuovo cappellino per Barbie.

La madre, da figlia femmina, la contesti: il suo affetto ti pare una sciarpa troppo stretta, la sua protezione limitante. Non vedi oltre, non hai gli strumenti. Ma più spesso vedi la famiglia, gli abbracci costanti che la caratterizzano, l’amore tra tuo padre e tua madre, il rispetto e la cura.

Siamo tutti il prodotto di chi ci ha cresciuto, ne prendiamo pregi e difetti e sebbene siamo consapevoli che i genitori ci lasceranno perché fa parte della natura delle cose, li crediamo immortali. Poi un giorno ci ritroviamo a non poter più fare quella telefonata e una sorta di sibilo invade il vuoto. Sembra acufene, forse dovresti andare dall’otorino.

No, è proprio il suono del silenzio che si manifesta al posto delle voci amate. Non ti fa compagnia, contribuisce alla mutilazione.

E, finalmente, arriva in soccorso la scrittura. Di un blog, di articoli sul Natale per l’editore, di un nuovo progetto. Scrivere con una nuova foto sul tavolo, accanto al computer, che ti motiva: non è scrivere per dimenticare ma scrivere per reagire. Funziona, prende il posto delle parole con cui interagire con chi ti chiede come stai. Non sei ancora in grado di parlare di come ti senti, ma sai che chi ti conosce bene, chi ti ama o chi ha passato ciò che stai vivendo, non avrà bisogno di spiegazioni. E allora sì, per ora meglio scrivere.

A me stessa, a voi, non so dirlo. Ma lo faccio. Postando la foto più bella del mondo, emblema di ciò che mi mancherà sempre ma anche di ciò di cui sarò sempre grata.

Vostra Susanna

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Quando qualcuno se ne va

Il silenzio è ciò che più annienta. Il silenzio generato dalla mancanza, dall’assenza delle telefonate quotidiane, dal suono dell’acqua che bolle e del sugo che borbotta mentre apparecchiate insieme. Il silenzio provocato da una voce scomparsa all’improvviso, dal rumore di passi che non esistono più. Tutto è silenzio, quando qualcuno se ne va.

Non poter più dire “mamma”, non scrivere più nulla nel suo calendario, non domandarle se ha preso la pastiglia per il diabete o che cosa desidera per cena.

Levar via le sue medicine, l’occorrente per sterilizzare l’apparecchio acustico, gli appunti sui valori della sua pressione da dare al medico. E scoprire nel fondo di un cassetto abilmente nascosta da altro quasi per pudore, la biancheria di tuo padre profumata e in ordine da ben 35 anni. Forse torna, avrà pensato qualche volta. Ma da quell’altrove che nessuno di noi conosce no, non si torna. Adesso c’è anche lei, forse stanno insieme, di nuovo, finalmente. C’è andata il 29 ottobre, rendendomi orfana.

Si dice che la cosa migliore dopo un lutto è riappropriarsi al più presto della normalità, ma non è forse una contraddizione, nel momento che nella normalità c’era chi adesso non c’è più? Tutto va ricostruito invece, daccapo, attorno a quella assenza; è un ricominciare claudicante, questo. Dovrebbe essere d’aiuto la consapevolezza che i figli sanno che perderanno i genitori, questa è la natura delle cose e della vita, e lucidamente lo sappiamo tutti ma…

Sì, “ma”. Un ma che non so spiegare e che al momento opprime, devasta, elargisce un senso d’angoscia al risveglio e una soffocante idea di perdita alla sera. Durerà, lo so bene, bisogna imparare a conviverci e accendere tante luci attorno per non precipitare nel buio che si fa gioco di ogni tentativo.

Durerà.

“Nella lingua italiana, “orfano” è il figlio a cui mancano i genitori. Esiste anche un altro termine: “orbato”. Come se venisse a mancare la luce ai propri occhi. E’ terribilmente vero.”
(Fabrizio Caramagna)

Ciao mamma

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Il mare è uno stato mentale

Il mare è uno stato mentale… Non ricordo chi lo ha detto o dove l’ho letto, ma questa considerazione è immediatamente diventata mia e non riesco a separarmene.

Più volte ho scritto del mare in queste pagine ma non c’è tappa della mia vita che lui non abbia affiancato. “Non ci vuole molto a comprenderne le ragioni”, direte voi considerando che sono nata e cresciuta in un’isola, ma credo si tratti di un legame ancor più profondo, spesso una necessità, altre volte una corda a cui aggrapparsi per non precipitare e altre ancora – quelle più fortunate – un paradiso.

Ricordo anni difficili in cui in pieno inverno e sotto la pioggia, raggiungevo la costa per guardare la distesa d’acqua che rifletteva il grigio minaccioso del cielo. Là, soltanto là, recuperavo la pace interiore o qualcosa che le assomigliava. Così come ricordo l’attraente suono della risacca quando la pace era già in me e quello era il luogo ideale per prolungarla. I tramonti, la calura estiva dei pomeriggi indolenti, i picnic sulle rocce a ridere delle evoluzioni dei cormorani, le folate di vento, i pescatori con le lanterne, l’odore del sale sulla pelle, i capelli bagnati d’estate o il bavero tirato su d’inverno.

Un tempo nuotavo come un pesciolino ma quando portarono a riva un annegato e mi ritrovai davanti al grigiore della sua pelle, al volto senza espressione, al corpo abbandonato tra le braccia di chi lo poggiava sulla battigia, inerme, ebbi una nuova paura che non mi lasciò più. Si creò una sorta di gerarchia tra me e il mare, un nuovo rispetto: compresi chi era il più forte, chi dettava leggi e condizioni, ma non per questo lo amai di meno. Le prime forme della vita sulla terra arrivano dall’acqua, nell’acqua del grembo materno viviamo prima di nascere, l’inconscio è connesso con l’acqua…

E poi quella musica antica, che immagino scritta da sempre su pergamene ingiallite e che il dolce sciabordio dell’acqua o le onde cattive producono: una sinfonia che nessun uomo mai ha saputo comporre o imitare e che mi fa dire “Sì, il mare è uno stato mentale”.

“Nelle città senza mare… chissà a chi si rivolge la gente per ritrovare il proprio equilibrio. Forse alla Luna.” (Banana Yoshimoto)

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Si può usare l’arte del riciclo con i sentimenti?

Riciclare: riutilizzare materiali di scarto, rimettere in uso qualcosa di vecchio, reimpiegare, ripresentare sotto una veste nuova, un nuovo aspetto, una nuova forma. Il significato è più o meno questo ed è interessante l’applicazione del riciclare su qualunque cosa che altrimenti si butterebbe via o avrebbe concluso la sua ragione d’esistere.

Giorni fa qualcuno mi ha scritto che sta riciclando un amore che altrimenti avrebbe esaurito la sua forza. Si può applicare l’azione del riciclare anche su persone e sentimenti?

Da qualche parte ho letto che ci sono due modi per vivere a lungo in coppia, uno è continuare a crescere e ad evolversi accettando il cambiamento a cui ogni essere umano è inevitabilmente sottoposto e magari restandone incuriositi. L’altro è fatto di stallo, di paura del cambiamento, di desiderio che niente si modifichi e di uso costante del noto che rassicura. La pila si sta scaricando? Si tenta il riciclo rischiando che il sentimento si atrofizzi pur di non cercare nuove energie nella coppia stessa, salvo scoprire che non erano infinite.

Chi mi ha scritto si rifaceva a un testimone del mio “Il male d’amore”, Graphe.it, il quale sosteneva che si resta perché qualcuno ci diventa di conforto come un vecchio pigiama sformato che mai butteremmo via e senza il quale non ci sentiremmo davvero al caldo.

Ogni volta che mi scrivete dopo aver letto il mio saggio, ne confermate il sottotitolo, “non si è mai pronti insieme a ricominciare da soli”, ed io ancora cerco qualcuno che invece mi e ci faccia ricredere dimostrando che questa frase non è applicabile alla sua storia… A proposito del “recuperare” infatti, vorrei regalarvi il punto di vista di François de La Rochefoucauld nel quale in molti ci riconosciamo: “È impossibile amare una seconda volta ciò che non si ama veramente più.”

Tornando invece alla materia, agli oggetti, è stata inaugurata domenica 13 ottobre una bellissima mostra di arte contemporanea al Palazzo Valentini di Roma. L’artista è la cagliaritana Tinamaria Marongiu, che ha esposto le sue opere composte prevalentemente di sculture, opere nate dall’utilizzo di materiali già esistenti che se assemblati con originalità e creatività divengono portatori di nuove storie e messaggi sociali. Ho trovato le sue sculture d’arte compatta incantevoli, e sono lieta che siano state apprezzate nel mondo perché meritano davvero tanto. Vi invito a visitare la mostra e magari a far due chiacchiere con l’artista, molto gentile e disponibile.

Riciclare dando vita a qualcosa di bello, in grado di emozionare e di coinvolgere: questa è magia. Ma… davvero si può farlo anche con i legami?


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Lavorare l’argilla

All-focus

Ho terminato da pochissimo un lavoro di editing e correzione di bozze per un privato, appassionante e interessante a tal punto da non farmi avvertire il peso di una concentrazione costante, necessaria per ottenere un buon risultato.

Non posso dirvi nulla sul contenuto di questo testo, ma su ciò che si prova a vedere qualcosa di buono prendere forma concreta sì, voglio dirvelo.

A volte è un po’ come lavorare la creta e ci vuole non solo pazienza ma anche tranquillità, non bisogna aver fretta né inseguire un unico risultato. Ci sono testi che nascono con impurità tali da necessitare di grandi manipolazioni, ancora panetti grezzi ma dall’idea ben definita nella mente degli autori. Altri, come nel caso appena accennato, che hanno già conosciuto le mani, il tocco amorevole, la garza o la tela: nessun sassolino, nessuna bolla d’aria, già sai che in cottura riveleranno soltanto perfezione. Sì, sono idee che già possiedono una forma e tu devi soltanto portar via il materiale in eccesso, pezzi unici per i quali puoi creare una struttura di sostegno, ecco tutto, in aiuto a chi li ha creati.

Si dice che il tempo indurisca troppo i lavori in creta, ma la giusta cottura serve a che in futuro non si riducano in polvere.

Ebbene, quando un testo possiede carattere, una efficace armatura, lavorarci per levar via ogni possibile imperfezione fa sì che abbia vita lunga, nelle librerie e nell’anima dei suoi lettori. Questo è ciò che auguro sempre a chi con fiducia mi commissiona lavori di editing, e crede nel mio supporto professionale.

Quando poi questi libri vedono la luce e ne ricevo una copia con dedica tutta per me, quando scopro il mio nome nei ringraziamenti o quando leggo recensioni positive, quelle lunghe ore passate a tavolino scompaiono perché prevale la soddisfazione, la gioia per aver accompagnato qualcuno fino a là.

Una prima pubblicazione è per ogni autore un importante punto d’arrivo, ma non la meta. Un viaggio che si spera non la raggiunga mai, e che offra stimoli e spunti sempre nuovi, destinazioni che sono tappe, tante e differenti.

Per scrivere, dobbiamo sentirci vivi, saper godere dei colori e dei profumi, trasformare albe e tramonti in emozioni, il mare d’inverno in struggimenti, le nuvole in storie, le impronte sulla sabbia in sentimenti o reticenze.

E non temere mai la solitudine, condizione necessaria per lavorare l’argilla dell’anima.

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