Ho sentito l’alba arrivare, stamattina…
Non so bene che ora fosse, quando un vicino di casa molesto ha interrotto il mio sonno, e così come spesso accade, contrariata ho cominciato a rigirarmi nel letto.
In questi casi, è il pensiero ad avere la meglio insinuando incombenze, elencando ragioni per alzarsi o ricordi molesti, poi l’elenco della spesa (come ho fatto a dimenticare le uova?), e le piante, sì le piante! Sono tre giorni che non le annaffio, con questo caldo poi! Poi c’è quell’articolo sui libri per bambini che non ho ancora terminato, gli appunti sul mio nuovo libro da riordinare, da rivedere, e tutte quelle lezioni di scrittura da mettere via ora che la scuola è finita. Chissà che fanno i miei allievi, a quest’ora. Chissà se qualcuno sta davanti al foglio bianco, se gli ho trasmesso quella smania di sporcarlo!
È così presto… Forse potrei leggere un po’.
Sul comodino, Michel Faber, “Il petalo cremisi e il bianco”, romanzo che una cara persona mi ha consigliato. Quando l’ho avuto tra le mani la prima volta, ne ho notato la consistenza: quasi mille pagine possono intimorire anche il più avido lettore!
Invece, quando l’ho cominciato, ho capito che sarebbe diventato l’amico dei momenti di relax, quelli tranquilli in cui lasciarsi andare mollemente in quell’altrove delle storie ben raccontate.
Mi viene in mente l’ultima frase letta ieri sera prima di spegnere la luce:
“Caroline non è abituata ad esser per strada così presto, ed è quasi intimidita dalla porzione di giornata che ancora le rimane da vivere”.
Curiosa coincidenza, sebbene io intimidita non lo sia. Piuttosto, infastidita dal sonno interrotto.
Poi, d’improvviso, la sento. La sento, l’alba che arriva, e mai mi ero resa conto del fatto che abbia un suono prima ancora che diventi luce incerta.
Sta nel fruscio del vento che in uno sbadiglio riprende la sua attività, dopo il riposo notturno. Sta negli uccellini, che cominciano il canto tutti insieme tra le fronde degli alberi. E sta in quella tortora lontana e solitaria – o magari è un piccione mattiniero – il cui verso mi ricorda le lunghe estati dell’infanzia. Sta nello sferragliare lontano del primo treno in partenza e in un neonato che piange reclamando la poppata.
Poi, dopo essersi fatta udire e annunciare, si fa vedere restituendo i contorni al mobilio della camera: non c’è ancora colore ma forma, ed io ne resto incantata attendendo i dettagli che non tardano a raggiungere la stanza, quasi un pittore ne avesse preso possesso e la stesse dipingendo soltanto per me.
Un rabbino domandò al suo discepolo: “Quando comincia il giorno?”
“Quando non confondo più la quercia con la palma”
La storia prosegue prendendo un’altra piega, ma a me al momento viene in mente questa frase, mentre lo sguardo ricomincia a distinguere spigoli, cassetti, specchio, tende, le ante dell’armadio… E il romanzo sul comodino.
Adesso sì, è giorno. Tutto comincia e non ci si può più sottrarre, la domenica è entrata in ogni casa e per una volta sono grata al vicino molesto. A volte, essere costretti a vedere e sentire può diventare piacevole dono. Lo stomaco reclama, in soggiorno mi salutano vecchi classici che ieri sera ho lasciato in giro.
In cucina invece, il buongiorno è più festoso a ricordarmi il tempo delle ciliegie, delle giornate che si allungano sempre più, quello della scuola che finisce, dell’estate alle porte, delle cicale pomeridiane, della risacca che regala melodie sulla spiaggia.
Sì, è una buona domenica, rossa, saporita e succosa.
“Da bambino volevo guarire i ciliegi quando rossi di frutti li credevo feriti.
(Fabrizio De Andrè)
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