Susanna Trossero

scrittrice

Scrivere per non dimenticare

scrivere x ricordare

Fernando Pessoa ha detto che

“Scrivere è dimenticare. La letteratura è il modo più gradevole di ignorare la vita.”

Ma, benché io ami questo autore che con il suo “Il libro dell’inquietudine” mi ha spinta ancor di più verso l’onesta (e crudele) introspezione, non sono assolutamente d’accordo con questa sua affermazione. Non è forse, lo scrivere, un terribile strumento per ricordare? Non è forse, la scrittura, evocazione, proiezione del desiderio, ritorno del rimosso? In fondo, chi saremmo noi senza le nostre memorie, i ricordi, le nostalgie?

Quando scrivo un romanzo o un racconto, non scrivo di me né utilizzo la scrittura per condividere mie esperienze con il lettore, ma la fantasia che mi ispira è sempre impregnata di emozioni o sensazioni conosciute, riesumate dal passato se e quando il presente non ne offre di efficaci a cui attingere.

La paura, la gioia, le reazioni emotive dei miei personaggi, le attese o quel terribile senso di vuoto di chi ha smesso di attendere, il disagio o l’allegria, non sono che stati d’animo causati sempre da persone o circostanze, dunque fanno parte di noi. Ciò che siamo stati è all’origine di ciò che siamo, ed è più facile scrivere di qualcosa che si conosce o che si è conosciuto, anche se poi si inseriscono situazioni che non ci appartengono. Dunque scrivere non è dimenticare: scrivere è rielaborare, scomporre porzioni di verità da ricomporre con la fantasia, è digerire meglio ogni boccone amaro ma anche mantenere indelebile un ricordo che vorremmo mai ci lasciasse.

La memoria è una preziosa soffitta, per chi scrive. Un luogo sacro, nel bene e nel male, a cui far visita senza alcun timore e dal quale trarre nuova linfa. Quella stessa linfa che, se sincera e ben condita dall’immaginazione, avvince il lettore. Perché, accanto a dei libri che ci hanno lasciati indifferenti, ve ne sono altri che gustiamo avidamente come lauti pasti, e che stimolano le nostre papille gustative ad ignorare la possibilità di un’indigestione.

Gli altri, pagine senz’anima né dolorosi segreti, restano là in uno scaffale poco frequentato, dimenticati e silenziosi come scheletrici alberi senza foglie.

Sì mio caro Pessoa, il passato è linfa necessaria a far fiorire le storie, a renderle rigogliose e a far sì che proprio esse ci insegnino a non ignorare la vita.

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Noi siamo ciò che rileggiamo

Si dice che non è ciò che leggiamo a raccontare almeno in parte chi siamo, bensì ciò che rileggiamo, e credo sia vero… Voi avete un libro che riaprite volentieri di tanto in tanto? Io, per esempio, considero un testo da consultare la raccolta di riflessioni di Pessoa intitolata “Il libro dell’inquietudine”. Pensieri privi di un filo conduttore, a volte fin troppo cinici altre pessimisti, ma spesso impregnati di poesia pura o rivelatori di grandi verità, che tengo sul comodino e mi accompagnano in serate particolari, quando sento dentro una gran voglia di scrivere, una volontà di creare ancora astratta che necessita della giusta spinta: ecco, Pessoa è questa spinta, lo è spesso, perché mi avvolge con le sue introspezioni lasciando emergere dal nulla le mie, e allora basta una frase, una pagina aperta per caso, l’evocazione di qualcosa che mi sonnecchiava dentro, ed eccola l’idea!

“Ci udiamo, ma ognuno ascolta la voce che è dentro di sé.”

Mi capita, seppure più raramente, di riprendere in mano anche “La nausea” di Sartre. Un libro certamente pesante, lento, da centellinare perché solo prendendolo a piccole dosi si è in grado di apprezzarne quella vena malinconica, il “difetto d’essere”, che è poi ciò che genera la nausea.

“Se soltanto potessi smettere di pensare… se solo potessi trattenermi… ma anche pensare di non voler pensare è un pensiero. Il mio pensiero sono io, ecco perché non posso fermarmi, e il pensiero da me alimentato si ingrossa e rinnova la mia esistenza. Mi costringe ad esistere.”

È un romanzo per la maggior parte descrittivo, un diario che elenca ciò che accade nel quotidiano anche quando – in verità – non accade niente, ma Sartre è in grado di raccontare l’odore dell’aria, il colore di un pensiero, di mostrarlo come fosse una fotografia. Pagine e pagine impregnate di malessere, ma anche questo è un libro che insegna a scrivere, di tutto e su tutto. E a esistere.

L’esistenza si nasconde. Non la si tocca.

Studiava e ritraeva se stesso per poter osservare le differenze che il tempo, gli anni, gli lasciavano addosso; spiava il suo volto cambiare, impoverirsi o arricchirsi a seconda del suo stato d’animo, del suo vissuto, dei tormenti, delle ossessioni, dei desideri e delle pene, e sosteneva che “l’uomo è condannato a essere libero, e ciò non può che generare un senso d’angoscia.” Pensate che questo grande della letteratura, nel 1964 rifiutò il premio Nobel!

Quale incredibile fonte d’ispirazione sono, i libri, quale grande e completo universo in cui muoversi mai sazi a cercare qualcosa che ci appartiene…

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Le nuvole di Fernando Pessoa

“Nuvole… Oggi ho coscienza del cielo; è da giorni, infatti, che non lo guardo ma lo sento, vivendo nella città e non nella natura che lo include. Nuvole… oggi esse sono la principale realtà e mi preoccupano come se il cielo che si copre fosse uno dei grandi pericoli del mio destino.”

Così scrive Fernando Pessoa nel suo Il libro dell’inquietudine. Facile lasciarsi trasportare dalle sue introspezioni, da quel male di vivere che profondamente lo affligge. Mi sono domandata spesso che cosa sia questo male e se davvero esista, o se non sia piuttosto la proiezione delle aspettative deluse…

E se a volte fosse solo un pensiero sbagliato che si riveste dell’ottusa pretesa di trasformare la sabbia in acqua? Limpida, fresca, trasparente, a soddisfare la bramosia, i bisogni che si annidano sottopelle, i capricci – reminiscenze adolescenziali – le carenze che altri, ignari, ci hanno provocato… Forse, un ottuso cercare laddove nulla si può trovare.

E allora, esiste veramente il male di vivere?

“Nuvole… Esisto senza saperlo e morirò senza volerlo. Sono l’intervallo fra ciò che sono e ciò che non sono, fra il sogno e quello che la vita ha fatto di me, la media astratta e carnale fra le cose che non sono niente, mentre anche io non sono niente. Nuvole… Che inquietudine se sento, che sconforto se penso, che inutilità, se desidero! Nuvole… passano sempre.”

Lui dice che scrivere è dimenticare. Che la letteratura è il modo più gradevole di ignorare la vita. E invece no, perché è lo scrivere che libera il vero pensiero, che lo lancia come affilato coltello contro chi lo incontra e lo legge. Oggi sfido chiunque a non farsi avvolgere dalle sue nuvole e dalle sue riflessioni, alle quali più di uno sentirà di appartenere.

“Nuvole… Sono come me, un passaggio cancellato fra il cielo e la terra, che segue un impulso invisibile, tuonando o non tuonando, che si rallegrano bianche o si scuriscono nere, finzioni dell’intervallo e dello sviamento, lontano dal rumore della terra e senza il silenzio del cielo. Nuvole… Continuano a passare, continuano sempre a passare, passeranno sempre di continuo, in un avvolgimento discontinuo di matasse opache, in un diffuso prolungamento di falso cielo disfatto.”

E se guardate lo stesso cielo, in questi giorni, provate a raccontarlo anche voi.

Vi aspetto,

Susanna

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