Susanna Trossero

scrittrice

Il non primo bacio

il non primo bacio

“Lei ha le trecce bionde, è un po’ grassoccia e questo la rende deliziosa, molto simile alla bambola che da non molto ho messo via. È timida, francese (che ci fa una bimba francese, sulle rive di un lago italiano?), e mi sono fatta in quattro per averla tutta per me nel banco: ci penserò io a insegnarle la lingua. Sua madre è Amelie, signora elegante, magra e gentile, che ha incontrato uno del posto anni prima, a Marsiglia. Ora, quello del posto ha deciso che è tempo di tornare, di occuparsi del vigneto, e così mi viene regalata Claudine, sua figlia. Costruisco un recinto immaginario attorno a noi due, decisa a diventarle indispensabile, ma in realtà quello è il tempo in cui è lei ad insegnare qualcosa a me. I suoi occhi azzurri e quel sorriso sempre un po’ impacciato di chi fatica a integrarsi, scavano dentro di me una profonda buca nera fatta di un nuovo che un poco mi spaventa, di strane sensazioni, di immotivati slanci e senso di vuoto, gli uni in sua compagnia, l’altro in sua assenza.

A Natale, mi regala un piccolo presepe di legno, con Gesù e la Madonna venuti non tanto bene. Però a lei piace il tetto della capanna, dice, e mi fa questo regalo perché è convinta che il mio paese assomigli a un piccolo presepe. Pronuncia la parola presepe così come nessun altro sa fare… Mia madre lo chiama difetto di pronuncia, per me è suono che incanta. Grazie a lei, in poco tempo mi innamoro di ogni selciato percorso, di muri e tetti, di marciapiedi, di erbe infestanti o di rose selvatiche, amo i nespoli, le querce, gli uccelli, i pungitopi. Tutto, tutto diviene suggestivo e aspetterò di crescere ancora un po’ per portarla – tenendola per mano – alla vecchia cava di zolfo, dove fingerò di essere davanti ai geyser del libro di geografia.

Sognavo un luogo lontano da lì, quel partire per mete lontane: ma che cosa è il viaggio se non tutto ciò che precede l’arrivo? E così, in quell’ambiente che sentivo vuoto di tutto, così poco attraente e pieno di sbarre, è proprio lo stupore e l’incanto del viaggio che mi coglie davanti a lei, meta inaspettata… È il mio primo amore, Claudine, quello dell’infanzia, ma anche io comprendo che vi è in questo qualcosa di insolito: non ha un nome da maschio, né le fattezze di un maschio. E io sono una femmina. Come lei. E allora, a nove anni, afferro anche io che quella voragine di sensazioni, quel buco nero, vanno coperti, riempiti di terra, di segreti, di adulte finzioni. È l’istinto che lo suggerisce, un istinto che si nutre di discorsi a tavola, con mia madre che parla di Andrea – il ragazzo che ama i ragazzi – come di un malato.

“Se penso a quei poveri genitori, a ciò che devono passare… Che disagio, che imbarazzo…”

“Io credo che anche queste siano mode – sentenzia mio padre – Se ne parla troppo, ed ecco il risultato. Andrea avrebbe bisogno di un medico serio e di un padre con le palle, le devianze possono essere curate, ne sono sicuro!” e ridono, i miei fratelli.

E nel timore che possano trovare una cura per il mio amore segreto, imparo a non nominare Claudine, a non portarla più a casa per studiare grammatica insieme a lei, a non invitarla alle merende, a non mostrarmi troppo in sua compagnia. E così, la ragazzina francese dagli occhi blu, in un bellissimo giorno di tiepido sole, mi sfiora appena le labbra con le sue per un addio da film, stanca di essere snobbata.

Il primo bacio mi si tatua nello stomaco prospettandomi un nuovo modo di vedere le cose: se qualcuno sta per abbandonarti al tuo destino, lo fa con gentilezza. Se esiste il “non primo bacio” è questo, e insinua il timore a proseguire: il terreno del futuro potrebbe rivelarsi ancora più accidentato, e le mie scarpe di certo faciliteranno cadute rovinose.

Il mio nuovo compagno di banco ha gli occhiali, si chiama Paolo, ha un odore diverso da Claudine e a vedere il geyser della Caldara ci è già stato. In realtà anche io, e più di una volta, ma adesso è solo un luogo in cui respirare puzza di zolfo.

Claudine scompare chissà dove dopo la festa di fine anno scolastico, quando tutti ci apprestiamo a lasciare le scuole elementari per diventar grandi. Quel giorno, ha un vestito giallo che non le dona, e sono soddisfatta di questa ultima immagine che mi regala, perché ricorderò di lei un pallore male incorniciato e chissà, forse, se sarò fortunata, non mi mancherà troppo.”

Un mio racconto sull’amore, quello di tutti e per tutti… Dedicato a chi, il “non-primo bacio”, lo ha ricevuto.

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La prima volta

Quante primavere ho conosciuto? Il cielo turchino, il tepore sulle panchine della piazza, le lucertole ad occhi chiusi sui muretti a secco… Ma questa è LA primavera, non una delle tante, perché c’è lei e chissà dov’era prima. L’odore delle ginestre è già intenso e la circonda tutta mentre corre via gridando “Tana!”

È bellissima, lo so, nonostante la nebbiolina dispettosa che impedisce di scrutare il suo viso nel dettaglio, ma vedo la luce nei capelli, vedo la figura snella e intuisco gli altri sguardi su di lei. Oggi è il giorno fatidico, DEVE esserlo, prima che lo sia di qualcun altro.

C’è un chiosco con la macchinetta dei gelati, di quelli che vengono fuori a ricciolo abbassando una leva, ma di soli due gusti, massimo tre se consideri la fragola, però quella non la trovi quasi mai.

Quando siamo tutti sufficientemente stanchi e sudati, la avvicino a occhi bassi e le chiedo se le va un gelato; la sento incerta, forse non le piaccio oppure è troppo timida o, ancora, è così bella che neppure mi vede. Ma sceglie panna, io cioccolato e siamo inaspettatamente seduti vicini sulla panchina, stavolta noi due lucertole al sole. Così, da vicino, la nebbiolina si dirada e mi permette di avere la conferma: è proprio bellissima!

Lo so, la miopia non è la fine del mondo, ma ho appena levato l’apparecchio, ci mancano solo gli occhiali! E poi è matematico, se hai gli occhiali ti vengono pure i brufoli.

Ora parliamo: scuola, genitori severi, musica, film, e il cuore mi batte così forte che sento a malapena la sua voce! Quanto tempo passa? Non lo so, gli altri sono andati via e l’aria si è fatta più fresca. Le svelo la mia passione per la scrittura, le chiedo cosa legge e piuttosto che raccontarmi di sé ride di un vecchio baule di sua madre, che contiene “Piccole donne”, “Le piccole donne crescono”, “I ragazzi di Jò”, “La piccola Dorrit” e io non so neppure di che parla, ma dev’essere qualcosa di ridicolo e per essere all’altezza della situazione non racconto della mia passione per Giulio Verne – ereditata da mio padre – né della raccolta di Montale che mia nonna ha comprato per me a Natale. Sono tempi di Harry Potter questi. E di vampiri. Ma il coraggio di tirar fuori quell’ultimo foglio imbrattato d’inchiostro la sera prima, quello sì, ce l’ho.

“Ieri sera ho scritto questo, è la storia di una ragazza bellissima, con i capelli come i tuoi…” le dico porgendoglielo. Capirà?

Silenzio.

Si rigira il foglio tra le mani e di colpo mi maledico e vorrei sparire! Non le interessa. Non prova neppure a leggerlo. Non le interessa. Dio fulminami. Adesso, qui! Ti prego, in fondo che ti costa? Chi ha detto che avere quattordici anni è fighissimo? I genitori, solo quelli possono dire una cosa così stupida, sempre lì a ripetere “Ah, se tornassi indietro!”.

E io invece vorrei essere mio zio, circondato di donne che nemmeno sa più dove metterle!

Quanto ancora deve durare questo silenzio? Sto male. Di quel male che ai maschi non si deve raccontare perché è roba da femmine. Ora sospira, e quell’affaticato soffio d’aria che le scappa dai polmoni scoprirò solo da adulto che si chiama resa. Mi dice “aspetta un momento”, poi apre una cerniera esterna dello zaino, il mio foglio sulle ginocchia. Vorrei ci fosse vento. Una bufera.

Ora in mano ha un astuccio rigido, la scritta sopra non la distinguo. Lo apre. Occhiali! SONO OCCHIALI! Li mette, accompagnando il gesto con un secondo sospiro.

“Non vedo niente senza questi… Ma li odio.” Sembra imbarazzata. Addirittura triste.

Allora, con le farfalle nello stomaco, ne prendo un paio dal fondo del mio, di zaino. Le lenti sono luride ma finalmente tutto è meravigliosamente nitido, chiaro come quello che provo. E dico, prendendole la mano con il coraggio di un leone: “Vedi? Li porto anche io!”

Ed è così che ogni cosa ha inizio e che mi pare di vedere i fiori sbocciare.

Il primo amore non si scorda mai.

E, forse, neppure i primi occhiali.

pubblicato in origine su GraphoMania in occasione della Giornata per la raccolta degli occhiali usati

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