Quante primavere ho conosciuto? Il cielo turchino, il tepore sulle panchine della piazza, le lucertole ad occhi chiusi sui muretti a secco… Ma questa è LA primavera, non una delle tante, perché c’è lei e chissà dov’era prima. L’odore delle ginestre è già intenso e la circonda tutta mentre corre via gridando “Tana!”
È bellissima, lo so, nonostante la nebbiolina dispettosa che impedisce di scrutare il suo viso nel dettaglio, ma vedo la luce nei capelli, vedo la figura snella e intuisco gli altri sguardi su di lei. Oggi è il giorno fatidico, DEVE esserlo, prima che lo sia di qualcun altro.
C’è un chiosco con la macchinetta dei gelati, di quelli che vengono fuori a ricciolo abbassando una leva, ma di soli due gusti, massimo tre se consideri la fragola, però quella non la trovi quasi mai.
Quando siamo tutti sufficientemente stanchi e sudati, la avvicino a occhi bassi e le chiedo se le va un gelato; la sento incerta, forse non le piaccio oppure è troppo timida o, ancora, è così bella che neppure mi vede. Ma sceglie panna, io cioccolato e siamo inaspettatamente seduti vicini sulla panchina, stavolta noi due lucertole al sole. Così, da vicino, la nebbiolina si dirada e mi permette di avere la conferma: è proprio bellissima!
Lo so, la miopia non è la fine del mondo, ma ho appena levato l’apparecchio, ci mancano solo gli occhiali! E poi è matematico, se hai gli occhiali ti vengono pure i brufoli.
Ora parliamo: scuola, genitori severi, musica, film, e il cuore mi batte così forte che sento a malapena la sua voce! Quanto tempo passa? Non lo so, gli altri sono andati via e l’aria si è fatta più fresca. Le svelo la mia passione per la scrittura, le chiedo cosa legge e piuttosto che raccontarmi di sé ride di un vecchio baule di sua madre, che contiene “Piccole donne”, “Le piccole donne crescono”, “I ragazzi di Jò”, “La piccola Dorrit” e io non so neppure di che parla, ma dev’essere qualcosa di ridicolo e per essere all’altezza della situazione non racconto della mia passione per Giulio Verne – ereditata da mio padre – né della raccolta di Montale che mia nonna ha comprato per me a Natale. Sono tempi di Harry Potter questi. E di vampiri. Ma il coraggio di tirar fuori quell’ultimo foglio imbrattato d’inchiostro la sera prima, quello sì, ce l’ho.
“Ieri sera ho scritto questo, è la storia di una ragazza bellissima, con i capelli come i tuoi…” le dico porgendoglielo. Capirà?
Silenzio.
Si rigira il foglio tra le mani e di colpo mi maledico e vorrei sparire! Non le interessa. Non prova neppure a leggerlo. Non le interessa. Dio fulminami. Adesso, qui! Ti prego, in fondo che ti costa? Chi ha detto che avere quattordici anni è fighissimo? I genitori, solo quelli possono dire una cosa così stupida, sempre lì a ripetere “Ah, se tornassi indietro!”.
E io invece vorrei essere mio zio, circondato di donne che nemmeno sa più dove metterle!
Quanto ancora deve durare questo silenzio? Sto male. Di quel male che ai maschi non si deve raccontare perché è roba da femmine. Ora sospira, e quell’affaticato soffio d’aria che le scappa dai polmoni scoprirò solo da adulto che si chiama resa. Mi dice “aspetta un momento”, poi apre una cerniera esterna dello zaino, il mio foglio sulle ginocchia. Vorrei ci fosse vento. Una bufera.
Ora in mano ha un astuccio rigido, la scritta sopra non la distinguo. Lo apre. Occhiali! SONO OCCHIALI! Li mette, accompagnando il gesto con un secondo sospiro.
“Non vedo niente senza questi… Ma li odio.” Sembra imbarazzata. Addirittura triste.
Allora, con le farfalle nello stomaco, ne prendo un paio dal fondo del mio, di zaino. Le lenti sono luride ma finalmente tutto è meravigliosamente nitido, chiaro come quello che provo. E dico, prendendole la mano con il coraggio di un leone: “Vedi? Li porto anche io!”
Ed è così che ogni cosa ha inizio e che mi pare di vedere i fiori sbocciare.
Il primo amore non si scorda mai.
E, forse, neppure i primi occhiali.
pubblicato in origine su GraphoMania in occasione della Giornata per la raccolta degli occhiali usati
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