Susanna Trossero

scrittrice

No vax vs pro vax

Si attendeva d’essere migliori. Si contavano i morti come in battaglia e si diceva “tutto questo domani ci renderà meno distratti, più vicini gli uni agli altri, più attenti al prossimo e con il rinnovato piacere – o la scoperta – per le piccole cose”.

Io mi domandavo: perché non cominciamo subito, ad essere migliori? Perché attendere sempre “domani”?

Forse dentro di me la risposta l’avevo già. Sapevo. Sapevo che il piacere delle piccole cose e della vicinanza con gli altri lo devi avere dentro, e se non lo conosci non è una pandemia a risvegliarlo. Perché non è sopito ma spesso solo assente, sconosciuto. Chi lo aveva, chi lo provava o conosceva, lo ha custodito e protetto in attesa della “normalità”.

Tutto qui.

A distanza di poco meno di un anno e mezzo dall’inizio di questa guerra al virus degna di un romanzo di Stephen King, non siamo migliori affatto, e la “normalità” è ancora miraggio.

Adesso sui social ci si insulta per il green pass, non vax VS pro vax, e ci si deride, ci si offende, ci si minaccia, o ci si banna. Perchè adesso funziona così: se non voglio frequentarti ti banno. Ti dimostro che posso cancellarti, che per me non esisti.

“Chi non è favore del vaccino, chi non vuole vaccinarsi, non è più il benvenuto nella mia bacheca”. O, all’opposto: “Chi posterà commenti osannando il green pass non sarà accettato tra i miei amici!”

Fazioni. Trincee. Da entrambe le parti. Dunque è così che siamo diventati migliori. Eppure, eliminando fanatismi o pseudo ribellioni al sistema che “ci rende schiavi” (sento queste frasi dagli anni ’70), tutti gli altri sono spinti dalla medesima molla: la paura. E allora dove sta la diversità, dove il nemico, perché la rabbia?

Siamo uguali, facciamocene una ragione e deponiamo le armi. La paura ci rende simili, deboli, ma costruisce l’inutile forza per aggredirci l’un l’altro.

C’è chi ha paura del vaccino: è vero, non sappiamo molto sugli effetti che potrebbe produrre nell’organismo domani. Paura lecita. C’è chi, all’opposto, ha paura di non vaccinarsi: il Covid incombe, abbiamo perso i nostri cari, alcuni morti da soli, in casa, altri si stanno sottoponendo a rieducazione dopo intubazioni troppo lunghe, altri ancora descrivono calvari da terapia intensiva. Paura lecita.

C’è chi ha paura di essere contagiato da chi non ha paura del contagio, e c’è chi ha paura d’essere un esperimento per le case farmaceutiche. Paura, sempre paura. Che anziché accomunarci tutti, tutti ci allontana. Magari rendendoci anche sciocchi, basta leggere i pesanti insulti da entrambe le parti a entrambe le parti rivolti.

Poi c’è anche dell’altro: “Il green pass è un organo di controllo”. Ho letto anche dei paragoni con la stella degli ebrei. Hitler è stato riesumato. E ancora: “Il green pass ci rende schiavi, burattini, spiati e pilotati”.

Il telefonino, l’essere sempre in rete, il tracciamento, le mode, le indagini di mercato, la geolocalizzazione, i social, i movimenti con bancomat e carte di credito, i biglietti nominativi dei treni… e poi è il green pass che ci rende schiavi o controllati?

Ma giù manifestazioni come se piovesse: contro lo stato padrone, centinaia di persone si accalcano nelle piazze senza più proteggersi, altrimenti che ribellione è?

Da millenni, la paura che dovrebbe fungere da “strumento” di protezione, diventa in realtà il nostro peggior nemico levando lucidità, capacità di discernimento.

A chi dice “sei vaccinato, perché temi chi non lo è se credi nella tua scelta?”, vorrei rispondere che il vaccino non è la bacchetta magica, ma un’arma che ci aiuta nel proteggerci ed ha un margine di rischio più o meno basso ma esistente. E allora, tu che non sei vaccinato, sei il margine di rischio per chi al vaccino si è sottoposto. Allo stesso modo, chi è vaccinato non è con gli insulti che annulla negli altri la paura di un vaccino appena nato.

Siamo tutti sulla stessa barca, accomunati da timori e perplessità che tuttavia ci rendono nemici.

Non importa come la penso io: a fare ciò che reputo giusto per me nessuno mi ha convinta né io devo convincere nessuno. Ma non vogliatemene se vivo in pace anche in tempo di guerra: forse non sono un buon soldato, ma si può non esserlo e al contempo non sentirsi sudditi.

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Vincere alla lotteria

L'angelo della porta accanto

Quante volte ci domandiamo che cosa serve perché uno scrittore raggiunga il maggior numero di lettori?

Come vedete, non ho usato la parola successo perché la ritengo fuorviante.

Oggi successo è uguale a presenza in tv, ampi spazi in libreria (magari una vetrina con esposte venti o trenta copie tutte insieme), e io vorrei invece riferirmi a quel tam tam di lettori che mette in moto qualcosa di magico.

Non mi piace chi acquista un libro da regalare a Natale basandosi sulle tempeste mediatiche; mi piace invece chi prova ad ascoltare le voci di chi quel libro lo ha letto o va a caccia di recensioni on line per saperne di più. Se poi addirittura lo leggesse prima di regalarlo sarebbe fantastico, ma anche una pretesa quindi fingete che io non lo abbia detto.

Ebbene, divagazioni a parte sul mio personale concetto di successo, che cosa serve a uno scrittore per essere talmente apprezzato da lasciare il segno?

Un buon prodotto, diremmo tutti.

Talento.

Una storia che funziona e che ci coinvolga.

Insomma, un lavoro ben fatto è la chiave.

Ma… e se invece non fosse così? Da qualche giorno sto rileggendo un romanzo di Stephen King che mi colpì molto quando venne pubblicato la prima volta, mi pare intorno al 1984. Si tratta de L’occhio del male, in realtà firmato al tempo con lo pseudonimo di Richard Bachman. Gli appassionati del grande King sanno che con questo nome firmò cinque romanzi compreso questo, e intendeva proseguire ancora, probabilmente con Misery. Gli fu impedito da un commesso scaltro che – conoscendo lo stile di King – indagò fino a riuscire a curiosare in un contratto firmato a nome King sebbene riguardasse Bachman. Insomma, fatto due più due la clamorosa notizia fu pubblicata dai giornali e Bachman… morì.

Stephen King, con questa storia dello pseudonimo si era divertito a giocare un po’ anche per vedere se uno sconosciuto che arriva in libreria senza clamore (lo aveva preteso lui dall’editore), può ripetere il successo già ottenuto dal vero autore.

Il punto è questo: i romanzi di re Stephen hanno venduto nel mondo un numero portentoso di copie, sono stati corteggiati da grandi registi e amati dai lettori. Ma Richard Bachman ha sì raggiunto un numero dignitoso di copie vendute, ma insignificante rispetto ai numeri fatti dal vero autore. Mi seguite?

Per essere più chiari: in America, 28.000 copie vendute de L’occhio del male firmato Bachman, sono diventate in un attimo 280.000 quando si è saputo che l’autore era in realtà Stephen King.

E allora, leggendo la sua riflessione in merito a tutto ciò, mi domando se non abbia ragione a pensare che il successo non necessariamente derivi da un buon prodotto: c’è dietro anche tanta fortuna. King ha raggiunto il successo con le sue prime pubblicazioni, Bachman è rimasto nell’ombra. Il talento però era lo stesso.

Non vi lascia pensierosi?

E se tutto fosse davvero soltanto legato al caso? Se fossero il caso o la fortuna a decretare che milioni di persone possiedano il tuo libro sul comodino e ne parlino con gli amici consigliandolo, oppure che bivacchi per un po’ in libreria seppellito da tanti altri titoli e poi

finisca al macero?

Personalmente, queste riflessioni del re del brivido, hanno colpito nel profondo.

È il lavoro che ti porta alla vetta o è tutto solo una lotteria?

Richard Bachman, ha gettato la spugna dopo esser stato smascherato, lasciando questa domanda insoluta, ma… voi, lettori o scrittori che siate, che risposta dareste?

Vi aspetto.

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Un paradiso per i lettori

Susanna Trossero

Che meraviglia, leggere quando finalmente tutto tace; la luce sul comodino è volutamente fioca a ricordare che fuori è notte, anche i vicini più rumorosi si sono tranquillizzati e nessuno ti reclama al telefono o via mail.

Ci siete tu e il libro. Il libro che di volta in volta ti conduce all’interno di una vita parallela in cui accadono un’infinità di cose, si incontrano persone mai viste prima, si visitano luoghi sconosciuti e si vivono situazioni inaspettate.

A guardar bene la mia libreria, non posso fingere di non notare che gli spazi sono oramai finiti, ma non sarà certo questo a fermare la mia sete di nuovi titoli!

Ognuno di noi ha il suo genere preferito e, quando si incappa nella storia giusta, il libro finisce troppo presto lasciando un piccolo vuoto. Per fortuna, c’è sempre un modo per colmarlo, quel vuoto:  i lettori sono una razza terribilmente infedele e volubile, ad ogni fine sono pronti a ricominciare, a tuffarsi in nuovi incontri letterari.

A volte però, si desidera proseguire la conoscenza del medesimo autore, attratti dal suo stile e incuriositi dalle storie che sa raccontare. A me per esempio è capitato quando ho conosciuto i libri di Moravia, quando da giovanissima ho scoperto Stephen King con la sua raccolta “A volte ritornano”… Sono rimasta fedele a Mc Grath (leggete – se ancora non l’avete fatto – i suoi Follia o Grottesco), a Koontz che adoro, a Josephine Hart o ai versi di Montale…

Quando ho letto La ragazza del treno di Paula Hawkins, ho amato l’autrice per la sua capacità di costruire un romanzo così complesso, intricato e intrigante. Ne ho fatto una bella recensione e l’ho consigliato agli amanti dei thriller o dei gialli (il confine tra i due generi era quasi inesistente). Non vedevo l’ora che venisse pubblicato un altro suo libro, così quando è apparso il nuovo Dentro l’acqua, mi ci sono tuffata anche io, in quelle acque. Tuttavia si rimane delusi anche da una prepotente infatuazione. Succede che il secondo libro non sia all’altezza del primo, che si sia voluto eccedere forse nel desiderio di superarlo. “Dentro l’acqua” mi ha affaticata non poco: quindici personaggi e troppe voci narranti sono piuttosto difficili da seguire! Resto del parere che se durante la lettura di un romanzo, devi tornare spesso sui tuoi passi per rileggere brani o riesumare il nome di qualcuno che pareva del tutto irrilevante, le cose non funzionano come dovrebbero.

E non funzionano, a mio avviso, nella raccolta di racconti che si è aggiudicata in questo 2017 il Premio Campiello Opera Prima… Ma questa è un’altra storia di cui troverete dettaglio sulle pagine di GraphoMania.

Nondimeno, le cose possono funzionare eccome! E condurci in paradiso o tra i cattivi che bruciano , trascinati da chi scrive e da chi si è guadagnato l’immortalità. Uno scrittore amato non muore mai, sappiatelo.

O forse sì, e allora viene da domandarsi: chissà se c’è un aldilà solo per gli autori di romanzi… Un girone che non sia dell’inferno, ma neppure stia in paradiso, dove secondo me si annoierebbero!

“L’unico aldilà in cui avesse mai creduto davvero era quello dell’immaginazione e – gli piaceva pensare – se è vero che uno scrittore non morirà mai veramente e continuerà a vivere nelle parole dei suoi libri, perché lo stesso destino glorioso dovrebbe essere negato a chi quei libri li ha letti, li ha amati, li ha fatti suoi?”

Il brano è tratto da Anna sta mentendo di Federico Baccomo, altro libro che vi consiglio caldamente.

E adesso vi saluto, devo raggiungere tre nuove storie da leggere:

  • Mauro Covacich – La città interiore
  • Ellen Umansky – La ragazza del dipinto
  • Michel Faber – Il petalo cremisi e il bianco

Tutto ciò in attesa di una nuova pubblicazione  di Lidia Fogarolo, altra autrice a cui restare fedeli!

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La scrittura, questa sconosciuta

Donna che scrive a macchina

In questo periodo di intensa condivisione della tecnica in materia di scrittura con la mia classe, mi è capitato di leggere e recensire testi che ne sviscerano malie e trabocchetti, trovando in ognuno di loro spunti di riflessione e motivi di arricchimento. Mi piace, conoscere gli autori nella loro essenza, scoprire che cosa c’è dietro una frase, una scelta stilistica, un personaggio, un conflitto tra i protagonisti, un’ambientazione. E mi piace che questo tipo di autobiografie possano rivelarsi degli ottimi manuali di scrittura, mai noiosi, sempre insoliti, che racchiudono sì la tecnica ma soprattutto grandi esempi di cosa può o non può funzionare.

Non si è mai del tutto maestri, e tanto possiamo imparare dagli altri per riuscire ad esserlo almeno un poco.

A chi ama la scrittura, ma anche ai lettori curiosi di saperne di più e di conoscere i loro beniamini scrittori, suggerisco per esempio due libri di Stephen King, uno di vecchia data intitolato On Writing, che ho letto addirittura tre volte per varie ragioni. La prima è che amo tutti i suoi libri più “vecchi”, e in questo testo si raccontano i dietro le quinte di ogni storia; la seconda è che vi sono importanti e interessanti consigli raccontati in modo curioso, così come è nel suo stile. L’altro libro, più recente, è il suo Il bazar dei brutti sogni, una raccolta di racconti non tutti inediti, ai quali si aggancia per dare dei suggerimenti. Entrambi, sono preziosi alleati della vostra penna, ma anche piacevoli arricchimenti sul suo scrivere, se lo apprezzate come autore.

Altro testo, che considero fondamentale per via di ciò che contiene, è quello di Mario Vargas Llosa, Lettere a un aspirante romanziere. Il Premio Nobel per la letteratura, offre un vero e proprio manuale che manuale non sembra, poiché appare come uno scambio epistolare durante il quale via via emergono i dubbi dell’esordiente, spazzati via dal romanziere: struttura, punteggiatura, ambientazioni, dialoghi… Si trova di tutto, in questo piccolo scrigno di tesori così ben scritto, e mai noioso come a volte sono i manuali.

E se questi libri hanno suscitato il mio interesse catturandomi, quello che ho addirittura amato è In altre parole, di Jhumpa Lahiri, un tributo alla nostra lingua: l’amore per le parole, il desiderio di usare quelle giuste, di comprenderne il vero significato.

Siamo così abituati a dare la nostra lingua per scontata, che non ne cogliamo più la bellezza, e questo libro ci regala emozioni inaspettate, nonché la possibilità di riscoprirla in tutto il suo splendore. Tanti, sono i romanzi che ci procurano il medesimo piacere, quando chi li ha scritti mostra di saper usare accostamenti e note, componendo sinfonie che raggiungono il nostro intimo, divenendo poesia anche nella prosa… Potrei elencarne alcuni, ma oggi mi limito a consigliarvi questi pochi ma buoni strumenti per amare ancor di più la parola scritta, che diviene magia quando se ne fa buon uso.

I taccuini, di Henry James invece, rappresentano ciò di più completo possa esistere riguardo al suo scrivere. Immaginate lo scrittore che si guarda attorno ogni giorno, carpendo da situazioni, volti incontrati per caso, profumi, malia delle stagioni, frasi, qualcosa da utilizzare per i suoi romanzi. Appunti di anni, che fungono da lezioni di scrittura, certo, ma ci appaiono come un segreto svelato, ammaliandoci. A leggere queste pagine, si viene catapultati in un’altra dimensione fatta di scrittoi, pensieri, parole, intime riflessioni e dialoghi tra personaggi che ci pare quasi di vedere. Stupefacente.

Per concludere, oggi ho riposto nella mia libreria l’ultimo volume del genere, appena letto: è quello di Haruki Murakami, Il mestiere dello scrittore, che mi ha avvicinata a lui più di tutti i suoi romanzi che ho avuto modo di leggere. Se volete conoscere davvero questo scrittore, così poco amato dalla critica e adorato dai suoi lettori più affezionati, e se volete approfondire che cosa si nasconde dietro le righe o le trame delle sue pubblicazioni, vi consiglio di leggerlo. Non ne resterete delusi.

La scrittura, questa sconosciuta, non sarà più tale per voi se vi ciberete di libri come questi, ve lo prometto.

Foto | Pixabay

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Elogio della brevità

Elogio della brevità

Le occupazioni quotidiane che intervengono durante le pause della lettura di un libro, ne modificano annullano o minano le impressioni. Nel racconto breve, invece, l’animo di chi legge è sotto il controllo dello scrittore. Non vi sono influssi interni o esterni derivanti da stanchezza o interruzione.

Lo ha detto Edgar Allan Poe nel 1842, parlando dell’efficacia del racconto breve e io faccio mio il suo pensiero, concordando con lui sulla bellezza del racconto. È  così che ho cominciato a scrivere, è così che ho fatto “allenamento”, ed è con i racconti che ho cominciato a pubblicare o che ho vinto concorsi letterari. Il racconto breve è un lampo, uno sfogo, un flash della fantasia, ed io adoro anche leggerne; i più grandi scrittori ne hanno pubblicato di bellissimi: Conrad, Kipling, Calvino, Moravia… Nella mia libreria non mancano neppure le raccolte di Stephen King! E che dire di Carver, maestro della narrativa breve?

Certo, il racconto richiede padronanza dei mezzi espressivi e una grande abilità di costruzione, tutto avviene in poche righe o in poche pagine, tuttavia io lo trovo una sorta di fremito, una luce improvvisa che oltrepassa la ragione e le cose seppure appartenendo ad entrambe. È sufficiente una parola, un’immagine, una frase o uno sguardo, ed ecco che il racconto si fa strada nella mente ed è pronto a riversarsi sulla carta.

Molti editori (fortunatamente non la Graphe.it)  trovano questa formula narrativa non vendibile, eppure mi appare assurda come considerazione: apparteniamo o no a un’epoca in cui pare sia di moda dire “Non ho più tempo per leggere”?

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