Quando, nei giorni scorsi, sono entrata in classe per il seminario sulla scrittura terapeutica, non avevo idea di quali volti avrei incontrato, là dove di solito faccio lezione con i miei allievi di sempre, appassionati di scrittura.
Mi sono ritrovata un pubblico tutto al femminile che si è dimostrato, fin dalle prime battute, vivace, interessato, aperto al dialogo e capace di interventi o condivisioni.
Il tempo è volato, tra le mie parole e le testimonianze esternate in aula da quelle sconosciute che in breve non erano più tali.
Ho sempre visto la scrittura come un ponte tra me e gli altri, e senza mai attraversarlo per raggiungerli non ci si può dedicare davvero a un’arte né a se stessi
È proprio facendolo che ho avuto la fortuna di conoscere persone meravigliose, di vivere situazioni emozionanti, di scoprire o riscoprire sfumature che aprono la mente, e conducono verso luoghi mai immaginati o circostanze neppure preventivate.
Ancora una volta ho incontrato modi differenti di scrivere e mi affascina il sentirli raccontare… In molti vivono quest’atto liberatorio, terapeutico, rilassante e amato, come momento segreto.
“Aspetto che tutti siano andati a dormire, e una volta riordinata la cucina mi siedo a tavola e scrivo in un diario ciò che ho provato in quella giornata, ciò che sento dentro”.
Penombra, respiri regolari che provengono dalle altre stanze. Profumo di pulito che rassicura sul proprio dovere compiuto. Ordine necessario a creare le giuste condizioni per ritagliarsi un altrove senza alcun pensiero a interferire…
Penso all’intimità di quel gesto, all’istante di raccoglimento, allo spazio che si ricava nella frenesia del quotidiano o tra le mille incombenze.
Penso al silenzio di una casa in cui tutti sono andati a dormire, al ticchettio di una sveglia, all’insolenza della lista di cose da fare il giorno dopo.
Eppure eccolo, il momento giusto. Quello in cui la condizione di solitudine non è più temuta o rifiutata bensì desiderata, necessaria, vitale addirittura.
Occuparsi d’ogni cosa per poi raggiungere se stessi, la propria essenza, quella che non sempre siamo capaci di regalare a qualcuno.
Il foglio bianco come amante segreto con il quale aprirsi, al quale concedere la passione di un gesto, o l’incontro profondo con noi stessi?
La solitudine non è che possibilità di dialogo e osservazione della nostra essenza, e che importa se ciò che siamo davvero non ci piace? Noi siamo anche ciò che ci è sgradito: scrivendone dobbiamo sospendere il giudizio, imparare ad abbracciare le nostre debolezze o le azioni poco nobili, non usare mai parole come “devo” ma sostituirle con “desidero”, “scelgo”.
Ci si accetta, scrivendo di noi. E ci si perdona.
Inoltrandosi in un terreno minato, si disinnescano gli ordigni più temuti.
Perché…
Perché, per dirlo con le parole di Ralph Waldo Emerson, “Ciò che ci sta alle spalle e ciò che ci sta di fronte, sono ben poca cosa rispetto a ciò che è dentro di noi”.
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